Da alcune settimane si avvertiva una certa agitazione, l’annuncio di un nuovo cambiamento era nell’aria. Chi frequenta gli ex terroristi di estrema sinistra italiani rifugiati a Parigi è da tempo abituato a cogliere nella stampa italiana i più piccoli segnali, le minime allusioni o gli indizi di trattative dietro le quinte, che potrebbero significare nuove minacce per gli espatriati che rischiano l’estradizione. Da marzo questi indizi erano diventati un po’ più evidenti. Nessuno, però, si aspettava un’operazione così ampia come quella del 28 aprile, compiuta alle sei di mattina dalla sezione antiterrorismo della polizia giudiziaria francese.
Sette persone, tra cui alcuni ex componenti delle Brigate rosse, condannate in Italia a pesanti pene detentive per atti di terrorismo compiuti negli anni settanta e ottanta, sono state fermate in seguito alle richieste italiane di estradizione presentate il 22 aprile dal ministero della giustizia.
Il dialogo tra Emmanuel Macron e Sergio Mattarella è stato costruttivo
Si tratta di Enzo Calvitti, Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Marina Petrella, Giorgio Pietrostefani, Sergio Tornaghi e Narciso Manenti. Altre tre persone (Maurizio Di Marzio, Luigi Bergamin e Raffaele Ventura), anche loro colpite da un mandato di cattura, non erano a casa quando è arrivata la polizia. Luigi Bergamin e Raffaele Ventura si sono costituiti a Parigi successivamente. Tutti sono stati condannati in Italia per aver partecipato, direttamente o indirettamente, a sanguinosi attentati contro dirigenti d’azienda, politici o persone delle forze dell’ordine.
Subito dopo l’annuncio dell’operazione, l’Eliseo ha fatto sapere che la decisione di trasmettere questi dieci nomi al tribunale è stata presa da Emmanuel Macron in persona, in seguito alle richieste italiane, precisando che il provvedimento “rientra nella dottrina Mitterrand”, che concedeva l’asilo in Francia in cambio della rinuncia alla violenza ai brigatisti che non si fossero macchiati di reati di sangue. Ma come può il presidente francese sostenere la richiesta di estradizione italiana e al tempo stesso dichiarare di rispettare una “dottrina” di solito invocata dai difensori dei brigatisti per ragioni opposte? Il problema è che questa nozione, mal definita, è stata spesso invocata per i motivi più diversi. “Diciamo che è una dottrina molto versatile”, ironizza Jean Musitelli, che è stato consigliere diplomatico di François Mitterrand dal 1984 al 1989, nel periodo in cui questa “dottrina” è stata elaborata.
Nel 1985 l’Italia stava uscendo da un decennio di violenza politica senza equivalenti in Europa: più di 12.600 attentati con 362 morti sono stati compiuti tra il 1969 e il 1980 da gruppi di estrema sinistra più o meno organizzati e da gruppi di estrema destra con complicità all’interno degli apparati dello stato (come nel caso dell’attentato alla stazione di Bologna nel 1980, in cui morirono 85 persone). L’obiettivo più urgente era ottenere il ritorno a una sorta di pace civile.
“All’epoca questa politica era stata decisa in pieno accordo con l’Italia, per tranquillizzare la situazione nei due paesi. E non aveva creato alcun problema”, continua Musitelli. “Del resto la ‘dottrina’ era stata definita in modo più preciso il 22 febbraio 1985, proprio durante un incontro con il presidente del consiglio italiano dell’epoca, Bettino Craxi, a cui Mitterrand era molto vicino”. Ma una volta stabiliti i princìpi di comune accordo, con il passare del tempo si è imposta una prassi un po’ diversa.
Cambio d’atteggiamento
Dal 1985 e fino all’inizio degli anni duemila le richieste italiane erano state rarissime e solo la domanda di estradizione di Paolo Persichetti, che nel 1985 non era ancora in Francia, nel 2002 era stata accolta. L’atteggiamento italiano è cambiato radicalmente all’inizio degli anni duemila, in particolare per volontà del presidente del consiglio dell’epoca, Silvio Berlusconi, mentre i parenti delle vittime del terrorismo cominciavano a farsi sentire sempre di più e le relazioni tra Francia e Italia si facevano meno cordiali. La sorte dei brigatisti espatriati in Francia diventò uno strumento diplomatico nello scontro tra Roma e Parigi e un’arma nella lotta ideologica tra la destra berlusconiana e la sinistra.
Poi nel 2004 è scoppiato il caso Battisti, che ha reso ancora più distanti le posizioni di Francia e Italia: la mobilitazione degli intellettuali francesi per difendere Cesare Battisti, l’ex militante dei Proletari armati per il comunismo (Pac) condannato per la partecipazione a quattro omicidi, scandalizzava gran parte dell’opinione pubblica italiana.
L’arresto di Battisti in Bolivia a gennaio del 2019 ha riportato in primo piano la sorte degli ex militanti della lotta armata espatriati in Francia. E il ministro dell’interno dell’epoca, Matteo Salvini, aveva approfittato dell’occasione per stigmatizzare ancora una volta l’atteggiamento della Francia. Così si erano moltiplicate le liste di persone di cui l’Italia chiedeva l’estradizione ed erano state organizzate riunioni regolari tra magistrati. Tutto ciò accompagnato dall’attivismo di Salvini sui mezzi d’informazione, che alla fine però si è rivelato piuttosto controproducente: diverse fonti diplomatiche erano concordi nel considerare inconcepibile “offrire” l’estradizione degli ex brigatisti al leader della Lega. Di fatto si sono rivelati più costruttivi i contatti molto stretti tra l’Eliseo e il presidente della repubblica Sergio Mattarella.
Dopo anni di tensioni l’arrivo al governo di Mario Draghi lo scorso febbraio ha avviato una nuova “luna di miele” tra Parigi e Roma. L’Italia ne ha approfittato per chiedere e ottenere l’estradizione del piccolo gruppo di ex espatriati le cui pene non erano ancora prescritte. “Gli arresti del 28 aprile sono stati improvvisi, ma tutto era stato organizzato con cura ed è il risultato di mesi di preparativi”, sintetizza una persona che conosce bene l’argomento. Al di là delle considerazioni diplomatiche, l’Eliseo afferma che questo avvicinamento dei punti di vista dei due paesi è stato favorito dagli attentati avvenuti in Francia negli ultimi anni “La Francia, colpita a sua volta dal terrorismo, comprende l’assoluto bisogno di giustizia delle vittime”.
Infine il gesto di Macron ha anche un valore europeo: “S’inserisce nella doverosa necessità di costruire un’Europa della giustizia, nella quale la fiducia reciproca deve avere un valore centrale”. In altre parole il presidente francese “ha voluto risolvere questo problema, come l’Italia chiedeva da anni”.
Subito dopo aver saputo degli arresti, il presidente del consiglio italiano Mario Draghi ha espresso la sua “soddisfazione”. Le persone arrestate in Francia, “responsabili di gravissimi reati di terrorismo, hanno lasciato una ferita ancora aperta”, ha sottolineato il capo del governo in un comunicato, in cui ha aggiunto: “La memoria di questi atti barbari è ancora viva nella coscienza degli italiani”. Dichiarazioni che sono state accolte positivamente da tutti i politici italiani, sia di destra sia di sinistra.
**L’incognita dei ricorsi **
La classe politica italiana (e l’opinione pubblica) applaude alla decisione di Macron, ma l’estradizione dei brigatisti richiesta da Roma non sarà immediata. Le procedure di estradizione davanti alla giustizia francese potrebbero durare anni. Inoltre la procedura del mandato di arresto europeo – grazie alla quale le autorità giudiziarie nazionali stabiliscono dei rapporti diretti senza interferenze politiche, ottenendo delle estradizioni quasi automatiche in virtù del riconoscimento reciproco delle decisioni in materia penale tra i vari paesi dell’Unione – non potrà essere usata perché i fatti sono anteriori alla sua entrata in vigore, nel 2004. Si dovrà quindi applicare il precedente regime di estradizione.
Una prima fase è stata completata con la trasmissione alla procura generale di Parigi delle richieste italiane di estradizione, ma ora spetta all’ufficio istruzione della corte d’appello di Parigi autorizzarle o meno. La corte d’appello è sovrana nel decidere sull’opportunità dell’estradizione, i testi normativi non prevedono dei criteri precisi al di fuori del rispetto formale della procedura. Inoltre la corte può chiedere delle indagini supplementari ed è possibile ricorrere in cassazione in ogni fase dell’istruzione. Una volta ottenuto il via libera dalla magistratura, il governo dovrà ordinare l’applicazione dell’estradizione attraverso un decreto, contro il quale si può fare ricorso al consiglio di stato.
In altre parole, a più di quarant’anni dai fatti i fantasmi degli anni di piombo continueranno ad agitare le acque tra Roma e Parigi. ◆ adr
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Questo articolo è uscito sul numero 1408 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati