“Dove sono? In Honduras o in Messico?”, chiedono in continuazione. Stringendo tra le mani un sacchetto di plastica con tutti i loro averi – un vecchio cellulare, qualche documento, delle aspirine e una piccola croce di legno – i migranti centroamericani attraversano il ponte che unisce El Paso, negli Stati Uniti, a Ciudad Juárez, in Messico. La polizia statunitense non li perde di vista.

Impauriti, molti con bambini piccoli in braccio, ripetono increduli la stessa domanda a ogni persona che incontrano: un venditore ambulante, un funzionario, un giornalista: “Dove sono? In che paese mi trovo?”. Molti hanno lasciato i loro paesi di origine in America Centrale per scappare dalla violenza e il 18 marzo sono stati scaraventati a Ciudad Juárez, una delle città più pericolose del Messico.

Vilma Iris Peraza, 28 anni, è arrivata esausta, deperita e con la tosse. Ha fatto solo qualche passo prima di crollare sul ponte. Teneva per mano la figlia Adriana, di tre anni. Anche lei non riusciva più a camminare e ha vomitato sugli stivali degli agenti, accanto alla targa che segnala la frontiera tra Messico e Stati Uniti. “Ci hanno imbrogliato”, ha gridato la donna quando si è ripresa. “Ci avevano detto che saremmo andati in un centro nel nord degli Stati Uniti, nessuno ci ha avvisati che saremmo stati espulsi”.

È stato il triste finale di un’odissea cominciata quindici giorni prima in Honduras. Al telegiornale Peraza aveva sentito che dopo l’insediamento di Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti sarebbe stato possibile entrare nel paese. Aveva anche sentito dire che stavano regolarizzando le madri che viaggiavano con bambini minori di sei anni, per cui non ha perso tempo e con la figlia ha cominciato il viaggio più pericoloso della sua vita. Guidata da un pollero (trafficante di persone) ha attraversato il Guatemala, è arrivata in Messico, e dallo stato di Tabasco, nel sud, è passata a quello di Nuevo León ed è finita nella punta estrema del paese, a Reynosa, nello stato di Tamaulipas.

A Reynosa ha aspettato insieme ad altri migranti provenienti dall’Honduras, dal Guatemala e dal Salvador, e poi ha attraversato il confine nel punto indicato dal trafficante. Alcune ore dopo è stata fermata a McAllen, la prima città degli Stati Uniti. Tutti i migranti ricordano di aver passato quattro giorni in un centro noto come la hielera, la ghiacciaia, a causa delle basse temperature che hanno dovuto sopportare durante la reclusione con solo una maglietta indosso. Poi li hanno fatti salire su un aereo e li hanno lasciati sul ponte di El Paso, in Texas, dove li hanno obbligati a camminare in direzione del Messico senza fermarsi né guardarsi indietro. Si trovavano a più di 1.200 chilometri dal luogo in cui erano stati fermati. Il 17 marzo erano quasi 150, il 18 marzo più di 220 e il 19 marzo circa 150.

Accanto a Vilma Peraza decine di honduregni, guatemaltechi e salvadoregni hanno avuto un cedimento quando hanno visto la bandiera messicana. “Perché ci fanno questo?”, chiede José Dámaso, honduregno. “Ci hanno preso le impronte digitali e ci hanno tenuti nella ghiacciaia per quattro giorni, dopo ci hanno detto che avrebbero chiamato i nostri familiari. Ci hanno fatto salire su un autobus, dopo su un aereo, poi ancora su un altro autobus. Non ci hanno mai detto che eravamo diretti qui, non abbiamo firmato per l’espulsione. Al governo degli Stati Uniti chiedo solo di darmi un’opportunità. Speravo di dare un futuro migliore ai miei figli”.

Appoggiandosi con discrezione al parapetto del ponte, Norma López e Dámaso, con due bambini aggrappati alle loro gambe, piangono tenendosi la testa tra le mani. “Ci hanno imbrogliati”, ripete l’uomo. Poi aggiunge che nessuno gli ha dato modo di spiegare davanti a un giudice che ha attraversato tre paesi per scappare dalla violenza.

I migranti non sono stati informati del fatto che stavano tornando in Messico. Ma mentre camminavano hanno cominciato a capire che era tutto finito. Gli Stati Uniti stanno espellendo dei poveri contadini in rovina, che non hanno neanche una casa dove tornare. Per pagare i trafficanti di persone che li hanno accompagnati fino alla frontiera, queste persone hanno chiesto molti soldi in prestito, tra i diecimila e i quindicimila dollari.

Senza genitori

Mentre gli agenti statunitensi scortavano i migranti in Messico, un annuncio veniva trasmesso insistentemente sulle radio locali dell’Honduras: “Non partire, non mettere a rischio la tua famiglia e i tuoi figli, non esporti ai pericoli del viaggio. Questo è un messaggio del governo degli Stati Uniti”. L’annuncio, letto da una voce maschile, viene diffuso tra la pubblicità di un supermercato e quella di un sapone. Per rendere il messaggio ancora più chiaro, Joe Biden e Roberta Jacobson, coordinatrice degli affari per la frontiera meridionale, l’hanno ripetuto in diverse occasioni negli ultimi giorni: “Non venite”.

Il numero di persone che cercano di entrare negli Stati Uniti è aumentato. I 100.441 migranti di febbraio sono la cifra più alta dal 2019, carovane comprese. Gli arresti alla frontiera negli ultimi mesi della presidenza di Donald Trump sono tra i più alti dell’ultimo decennio, e gli attraversamenti illegali sono aumentati in modo vertiginoso da quando Biden è arrivato alla presidenza. A febbraio gli arresti sono cresciuti del 28 per cento rispetto a gennaio, e secondo la Customs and border protection (Cbp), responsabile della sorveglianza dei confini statunitensi, a marzo la cifra sarà ancora più alta, con quattromila arresti al giorno. Dal 1 ottobre le autorità hanno registrato più di 396mila attraversamenti illegali di migranti, contro i 201.600 nello stesso periodo del 2020.

Da sapere
Gli arrivi aumentano
Migranti avvistati dalle autorità statunitensi alla frontiera tra Messico e Stati Uniti, migliaia (Fonte: Us Customs and border protection)

Con questa situazione, il dibattito tra repubblicani e democratici gira intorno al termine “crisi frontaliera”. A Biden è attribuito un effetto di richiamo che ha riempito all’inverosimile tutti i centri di accoglienza del Texas e ha costretto le autorità a sistemare i migranti in un parcheggio a El Paso, in un centro fieristico a Dallas, in un’area della Nasa in California e in un campeggio in Arizona.

Nel frattempo il numero di bambini che arrivano da soli nel paese è aumentato drasticamente. Partono con i genitori dall’America Centrale, ma a un certo punto molti preferiscono separarsi con la speranza di avviare un processo di legalizzazione. Il 22 marzo la polizia di frontiera ha fermato 561 minori non accompagnati, una cifra che batte il triste record di 370 raggiunto nel maggio del 2019 durante l’amministrazione Trump, o di 354 minori fermati nel giugno del 2014 durante la presidenza di Barack Obama. Secondo l’Associated Press, a febbraio di quest’anno la media al giorno è stata di 332 minori non accompagnati, un aumento del 60 per cento rispetto a gennaio.

Stesso obiettivo

Oggi la frontiera tra Messico e Stati Uniti è un luogo schizofrenico dove si mescolano il caos centroamericano, le vecchie politiche di Trump (che ha obbligato i centroamericani a presentare in Messico la richiesta di asilo per ragioni umanitarie), le nuove misure approvate da Biden (che ha annullato le misure di Trump e accetta l’ingresso di cinquanta persone al giorno), la risposta del Messico (da cui passano tutti i migranti) e la povertà dell’America Latina, aggravata dalle ultime catastrofi naturali. A tutto questo si aggiungono due novità: il covid-19 come ragione per respingere subito chiunque presenti domanda d’asilo, e l’espulsione dei migranti verso luoghi lontani, a più di mille chilometri dal luogo in cui sono stati fermati, dove c’era l’unica persona di cui si fidavano: il pollero.

Il 19 marzo, in risposta all’aumento dei migranti in arrivo, il Messico ha deciso di chiudere la frontiera meridionale e di mandare gli agenti della guardia nazionale e dell’Istituto di migrazione per fermare l’arrivo dei centroamericani. Poco dopo Washington ha annunciato che manderà in Messico 2,5 milioni di dosi di vaccino AstraZeneca.

Secondo i governi dei due paesi, l’invio dei vaccini e la chiusura delle frontiere non sono collegati. Ma le pressioni che gli Stati Uniti stanno esercitando sul Messico per risolvere la crisi migratoria sono sempre più forti. Come ha ammesso il segretario alla sicurezza interna statunitense, Alejandro Mayorkas, Washington sta affrontando il maggiore aumento di migranti alla sua frontiera sudoccidentale in vent’anni.

A questi ingredienti si aggiunge l’iperattivismo di Trump nella regione. L’immigrazione, il muro e la sicurezza al confine sono stati i pilastri della sua vincente campagna elettorale nel 2016. Il caos alla frontiera è diventato ancora una volta una questione importante in vista di un suo ipotetico ritorno al potere e di una vittoria dei repubblicani alle elezioni di metà mandato del 2022. Trump guida un coro che agita la parola crisi, anche se tace sul fatto che l’attuale tendenza migratoria è cominciata quando lui era alla Casa Bianca.

Più che al cambiamento di governo, la nuova ondata è dovuta alla violenza, all’instabilità politica e al passaggio degli uragani Eta e Iota che a novembre hanno colpito i paesi dell’America Centrale – una delle zone più vulnerabili del mondo al cambiamento climatico – assestando il colpo finale alla già disastrata economia della regione.

Secondo Enrique Valenzuela, coordinatore generale della Comisión estatal de población di Chihuahua (lo stato dove si trova Ciudad Juárez), si tratta di un fenomeno inedito: “I migranti non sanno neanche dove si trovano quando arrivano”, dice nel suo ufficio accanto al ponte che unisce Messico e Stati Uniti. “Le persone”, prosegue, “vengono espulse sulla base del cosiddetto titolo 42 (una direttiva che riguarda la sicurezza sanitaria per prevenire la diffusione del covid-19), non per motivi di politica migratoria. Finché ci sarà la pandemia, gli Stati Uniti continueranno a mandare indietro i migranti che arrivano per chiedere la protezione internazionale”.

Prima che Valenzuela finisca la frase, sul ponte si fermano tre autobus con a bordo quasi un centinaio di migranti spaventati. Gli viene ordinato di scendere e poi camminare verso il Messico. “Sono angosciati perché sono partiti con la speranza di ottenere asilo politico, ma sono stati imbrogliati dai trafficanti di persone”, dice Valenzuela. “Sono stati tratti in inganno dal fatto che Biden ha messo fine al programma chiamato Migrant protection protocols, in base al quale le persone che volevano entrare negli Stati Uniti dovevano aspettare in Messico”.

I democratici non parlano di crisi e usano l’eufemismo “sfida” per sottolineare che non hanno perso il controllo della frontiera. Nel 2000, rilevano, circa novemila agenti della polizia di frontiera hanno arrestato in media quasi 137mila migranti al mese. Tra l’ottobre del 2020 e il febbraio del 2021 la media è stata di poco superiore ai 76mila, ma rispetto al 2000 la quantità di agenti destinati alla vigilanza della zona è più che raddoppiata.

Secondo padre Francisco Javier Calvillo, direttore della Casa del migrante a Ciudad Juárez, il centro di accoglienza più antico della città, c’è un effetto di richiamo: “Arrivano molti migranti dall’America Centrale e dal Messico, la zona si sta riempiendo di trafficanti di persone e le domande di asilo politico tardano uno o due anni prima di essere esaminate. Gli Stati Uniti espellono i migranti in virtù del titolo 42. Ci sono tanti minorenni ma il governo messicano resta indifferente”, dice. Il suo centro di accoglienza per migranti cerca di affrontare la crisi umanitaria più con la buona volontà che con i soldi delle organizzazioni religiose e civili.

Da mesi Francisco Javier Calvillo osserva la situazione al confine ed è arrivato alla conclusione che Trump e Biden sono uguali, anche se hanno metodi diversi: “Per raggiungere il suo obiettivo il primo ha battuto i pugni sul tavolo e ha minacciato di imporre dazi al Messico. Il secondo usa la diplomazia e i vaccini per lo stesso scopo: impedire ai migranti di entrare negli Stati Uniti”. ◆ fr

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Questo articolo è uscito sul numero 1402 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati