Fatima Hassouna aveva 24 anni, era una fotogiornalista palestinese ed è stata uccisa da un bombardamento israeliano il 16 aprile mentre era dentro casa. Viveva nel quartiere di Al Touffah, nel nord di Gaza. Con lei sono morte dieci persone della sua famiglia.

A maggio Fatima Hassouna sarebbe dovuta andare al festival del cinema di Cannes per la presentazione del documentario Put your soul on your hand and walk, della regista iraniana Sepideh Farsi, di cui è la protagonista. In un post su Instagram, pubblicato l’anno scorso, Hassouna aveva scritto: “Se muoio, voglio una morte che il mondo senta”.

Uno studio della Brown University, negli Stati Uniti, ha calcolato che dal 7 ottobre 2023 a Gaza sono stati uccisi almeno 232 giornalisti, più di quanti ne siano morti sommando i giornalisti uccisi nella guerra civile americana, nelle due guerre mondiali, nella guerra di Corea, nella guerra del Vietnam, nelle guerre in Jugoslavia e nella guerra in Afghanistan dopo l’11 settembre.

Il Committee to protect journalists ha anche calcolato che l’esercito israeliano è responsabile della morte del 70 per cento dei giornalisti uccisi l’anno scorso in tutto il mondo.

Ci sono poi i giornalisti palestinesi arrestati: dal 7 ottobre sono almeno 84, molti dei quali si trovano in detenzione amministrativa, sono cioè trattenuti a tempo indeterminato e senza che nei loro confronti sia stata formalizzata un’accusa.

Se a tutto questo si aggiunge la decisione del governo di Benjamin Netanyahu di non far entrare nella Striscia di Gaza i giornalisti stranieri, è evidente un disegno più ampio: la volontà di imporre un black out giornalistico sul conflitto e di ridurre al silenzio i possibili testimoni dei crimini di guerra commessi dai soldati dell’esercito israeliano in quello che la Brown University ha definito “un cimitero dell’informazione”. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1611 di Internazionale, a pagina 3. Compra questo numero | Abbonati