C’è una tv che alberga nei sogni di chi vorrebbe un etere normato da ordine e disciplina. È un piccolo gioiello sovranista, che trasmette dal luogo più remoto del pianeta: l’isola di Nauru, in mezzo al Pacifico, 12mila abitanti. È una tv arcaica, fatta di videocassette e cavi volanti, ma prodiga di documentari e programmi d’intrattenimento. A farne un modello sono alcune caratteristiche altamente esportabili. Edulcora con veline governative la crisi profonda in cui è precipitata l’isola dopo che la materia prima che ne aveva garantito per anni la ricchezza – il fosforo – si è pressoché esaurita. Le numerose ore di programmazione in lingua locale su usi e costumi rafforza l’identità comunitaria in una fase postcoloniale più agognata che reale. Il meteo, in una delle zone più colpite da feroci cataclismi climatici, domina l’attenzione del pubblico. Nel frattempo, fuori dagli studi, il governo di Nauru, a fronte di fondi neppure troppo generosi, ha recepito l’opacissimo dispositivo del primo ministro australiano, Anthony Albanese, di deportare sull’isola oltre 80mila migranti. Una scelta condotta, secondo diverse organizzazioni per i diritti umani, come l’Asylum seeker resource centre, nella più totale segretezza, in ossequio alle pratiche di espulsione introdotte da Trump. Eppure anche a Nauru, prossima discarica umana in soli 21 chilometri quadrati, la tv ha lo straordinario potere di narrare l’isola che non c’è. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1640 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati