Xi Jinping può ringraziare Donald Trump. Colpendo New Delhi con il raddoppio dei dazi sulle sue esportazioni, il presidente statunitense ha accelerato il riavvicinamento in corso tra i due grandi rivali asiatici, Cina e India, i due paesi più popolosi del mondo (contano insieme 2,8 miliardi di abitanti). Una situazione che aggrava l’isolamento statunitense e sottolinea in modo impietoso l’indebolimento dell’occidente.
Il primo ministro indiano Narendra Modi è stato uno dei protagonisti, insieme al presidente russo Vladimir Putin, del vertice annuale dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco), ospitato da Xi Jinping il 31 agosto e 1 settembre a Tianjin, una città portuale a 120 chilometri dalla capitale cinese. Era dal 2018 che Modi non andava in Cina. Da allora le relazioni tra i due vicini si sono deteriorate al punto che i loro eserciti si sono affrontati nel 2020 e nel 2021 nella regione sul confine himalayano del Ladakh, rivendicata in parte dalla Cina.
Dopo mesi di disgelo, Xi e Modi si sono rivisti a Tianjin per un incontro al margine del vertice. Secondo il viceministro degli esteri indiano Vikram Misri i due sono stati “felici di constatare il miglioramento delle loro relazioni”. Stando alle parole di Misri, “gli interessi comuni tra i due paesi prevalgono sulle differenze”. Il capo della diplomazia indiana ha inoltre sottolineato che India e Cina “devono cooperare se vogliono che il ventunesimo secolo sia il secolo dell’Asia”. Xi Jinping ha usato invece una formula molto più immaginifica: “Realizzare ‘la danza del dragone e dell’elefante’ dovrà essere la saggia scelta di entrambi i paesi”.
Siamo lontanissimi dall’incontro dello scorso febbraio alla Casa Bianca tra Modi e Trump, durante il quale il primo aveva ripreso lo slogan del secondo dicendo di voler “rendere l’India di nuovo grande” (Make India great again, Miga) e dichiarando: “Quando il Maga si associa al Miga, nasce un megapartenariato per la prosperità”. Per il momento questo sembra passare piuttosto da Pechino. L’offensiva di Trump contro New Delhi (sono da poco entrati in vigore dazi del 50 per cento sulle merci indiane esportate negli Stati Uniti, decisi da Trump per punire New Delhi che compra petriolio dalla Russia) pone un problema cruciale per il modello economico indiano. In effetti ormai da diversi anni la forte crescita del paese sotto la guida di Narendra Modi si spiega con la sua posizione rispetto alla riorganizzazione della catena logistica. L’India ha tratto molti vantaggi dalla strategia della “delocalizzazione in paesi amici” (friendshoring) del capitalismo statunitense, cioè dalla ricerca di fonti di approvvigionamento alternative alla Cina dopo il primo mandato di Donald Trump alla Casa Bianca (2017-2021). L’India, come il Vietnam, è quindi diventata una produttrice di beni per il mercato statunitense, in larga misura a partire da semilavorati cinesi. Nel 2023 il 18 per cento delle sue importazioni proveniva dalla Cina e il 17 per cento delle sue esportazioni era diretto negli Stati Uniti. Modi aveva tutte le ragioni per pensare che il ritorno di Trump al governo avrebbe accelerato questa strategia. New Delhi poteva addirittura presentarsi come un’alternativa perfetta al rivale cinese. D’altro canto, la Apple aveva fatto investimenti massicci nel sud dell’India per preparare il terreno.
Secondo i calcoli di Modi, lo sviluppo industriale indiano generato dal friendshoring avrebbe permesso la costruzione di una potenza autonoma, favorendo lo sviluppo del gigantesco mercato interno indiano. Modi non ha mai nascosto la sua ambizione: fare dell’India una nuova superpotenza economica, una “nuova Cina”. Nel frattempo avrebbe dovuto mantenersi in equilibrio tra Washington e Pechino. Tuttavia, poiché la strategia della nuova amministrazione Trump è improntata al vassallaggio, l’India si è trovata in una posizione di debolezza e posta di fronte a una scelta: sottomettersi, come il Vietnam, a condizioni fortemente inique per salvaguardare il suo accesso al mercato statunitense o essere penalizzata da tariffe doganali proibitive.
I dazi al 50 per cento sui prodotti indiani impongono al governo Modi di definire un nuovo modello economico. Da questo punto di vista la Cina ha le sue carte da giocare, dato che ha già cominciato a investire in modo massiccio in India, soprattutto con i suoi produttori di smartphone Xiaomi, Vivo o Oppo. Il futuro manifatturiero indiano può quindi essere inquadrato nella cornice cinese: l’India può sognare di diventare per la Cina l’equivalente di quello che la Cina è stata per gli Stati Uniti negli anni novanta-duemila, un laboratorio a buon mercato dove è possibile produrre a basso costo. Con un ulteriore vantaggio: un mercato al consumo già sviluppato che non chiede altro se non acquistare prodotti cinesi.
◆ Il 3 settembre 2025 a Pechino, alla parata militare per l’ottantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale, che la Cina chiama la “guerra di resistenza contro l’aggressione giapponese”, a fianco del presidente Xi Jinping c’erano il collega russo Vladimir Putin e il nordcoreano Kim Jong-un. Le immagini dei tre leader insieme sono un chiaro messaggio rivolto all’occidente e una sfida all’ordine mondiale a guida statunitense. Ma, finite le celebrazioni, Xi, Kim e Putin dovranno tornare a occuparsi delle grandi sfide nei loro paesi: l’economia cinese in stallo, la guerra in Ucraina di cui non si vede la fine e la perenne crisi economica della Corea del Nord, le cui entrate dipendono dalla fornitura di armi, munizioni e soldati a Mosca. Resta da vedere se la foto ricordo si tradurrà in un’azione concreta. The Guardian
La fine della pax americana
Oltre a Narendra Modi, a Tianjin c’era una ventina di altri capi di stato, rappresentanti di una parte rilevante dell’Eurasia. Dopo la sua creazione nel 2001, la Sco è passata dall’essere un gruppo di confronto sino-russo con i paesi dell’Asia centrale su questioni di sicurezza a uno dei poli di opposizione al dominio occidentale sotto l’egida cinese. La diplomazia “dirompente” di Trump, che consiste nel “demolire” gli alleati e lusingare i nemici, accelera una tendenza già in atto – lo spostamento verso l’Asia del centro di gravità del mondo, sia sul piano economico sia su quello geopolitico – ma agevola in modo sorprendente il suo principale rivale strategico, la Cina. Come sottolinea l’economista statunitense Paul Krugman, “in appena sette mesi Trump ha completamente distrutto le fondamenta della pax americana”. Questo punto di vista è, come sempre nel caso di Krugman, quello della maggioranza del Partito democratico del suo paese, che ha dissimulato una postura imperialista dietro la pretesa della stabilità. Krugman ammette che la “pax americana” è stata al servizio dell’impero statunitense e che leader come Mohammed Mossadegh in Iran e Salvador Allende in Cile ne sono stati le vittime. A suo parere, però, “per l’Europa e il Giappone l’impero americano è stato qualcosa di più raffinato, poiché gli Stati Uniti hanno evitato esibizioni brutali di potere e hanno fatto di tutto per evitare di mostrare esplicitamente la loro impronta imperialista”. Dopo il ritorno di Trump alla Casa Bianca, brutalità e lusinghe hanno preso il posto dell’astuzia e della diplomazia. In realtà l’amministrazione Biden aveva mantenuto una postura ostile con Pechino, lasciando già intravedere la crisi della “pax americana”. La posizione di Trump ha irrigidito la situazione, nel tentativo di rafforzare l’impero intorno a una logica di vassallaggio. Così lo stato-partito comunista cinese ha avuto gioco facile nel presentarsi come difensore del multilateralismo e delle organizzazioni nate nel dopoguerra, come le Nazioni Unite. Il 30 agosto il segretario generale dell’Onu António Guterres, ricevuto da Xi Jinping, ha elogiato il sostegno della Cina “in un momento in cui il multilateralismo è sottoposto a critiche feroci”. “Assistiamo all’emergere di nuove forme di politica a volte difficili da comprendere, che somigliano più a uno spettacolo che a sforzi diplomatici seri e nell’ambito delle quali affari e politica sembrano a volte confondersi”, ha dichiarato Guterres alludendo evidentemente a Trump. Anche il presidente cinese si è ben guardato dal citare il leader statunitense nel discorso di apertura del vertice, ma tutti hanno capito di chi parlava quando ha chiesto di contrastare “la mentalità da guerra fredda, lo scontro tra blocchi e il bullismo”.
Il leader cinese si è impegnato a versare quest’anno due miliardi di yuan (circa 240 milioni di euro) in sovvenzioni ai dieci stati membri della Sco, oltre a dieci miliardi di yuan (1,2 miliardi di euro) in prestiti a un consorzio bancario della Sco nei prossimi tre anni. “Dobbiamo trarre profitto dalla forza dei nostri grandi mercati e dalla complementarietà economica tra gli stati membri, facilitando scambi commerciali e investimenti”, ha detto Xi, sostenendo ancora una volta la necessità di un “sistema di governance mondiale più giusto ed equo”.
Anche Vladimir Putin e l’iraniano Masoud Pezeshkian a Tianjin hanno colto l’occasione per ribadire le loro posizioni rispetto all’occidente. Il primo ha difeso la sua decisione d’invadere l’Ucraina, presentando la “crisi” come “un colpo di stato a Kiev, sostenuto e provocato dall’occidente, seguito da tentativi di usare la forza militare per reprimere le regioni e le popolazioni ucraine che avevano respinto e rifiutato quel golpe”. Pezeshkian ha invece lodato gli sforzi della Sco per porre fine all’“unilateralismo e alla politica fondata sulla forza, che hanno spesso ostacolato gli sforzi mondiali per una pace duratura”. Sono state citate le crisi in Medio Oriente, ulteriore occasione per affrontare insieme gli Stati Uniti e i loro alleati israeliani.
Posizione di neutralità
Ma l’alleanza contro Trump esibita a Tianjin presenta al suo interno forti discordanze e future contraddizioni. Proprio come la Turchia – “partner di dialogo” della Sco – l’India cerca di mantenere una posizione di neutralità tra l’occidente e il fronte Pechino-Mosca. Andando a Tianjin, Modi era passato per il Giappone, che partecipa insieme all’India al dialogo quadrilaterale per la sicurezza (Quad), un organismo di cooperazione informale di cui fanno parte anche Stati Uniti e Australia. Modi si è inoltre guardato bene dal presenziare alla grande parata militare organizzata da Pechino il 3 settembre per gli ottant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, presentata ufficialmente come “l’anniversario della vittoria nella guerra di resistenza del popolo cinese contro l’aggressione giapponese e della guerra mondiale antifascista”. Evento a cui hanno partecipato Vladimir Putin e il dittatore nordcoreano Kim Jong-un.
Se New Delhi si avvicinerà a Pechino, di sicuro non punterà tutto su una sola carta. Avrà bisogno del petrolio a basso costo russo e dei mercati di esportazione europeo e asiatico. Il paese più popoloso del mondo non intende diventare una semplice pedina nella partita a scacchi condotta dalla Cina. In fin dei conti, Modi potrebbe cercare di riproporre con Pechino quello che ha cercato di fare con Washington, e la Cina potrebbe mostrarsi più conciliante degli Stati Uniti. Questo capovolgimento di alleanze resta comunque provvisorio. Lo scontro tra India e Cina per il potere e l’influenza in Asia appare inevitabile. Per il momento, però, gli errori di Trump permettono di costruire un’intesa di facciata. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1630 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati