Si accumulano i capolavori dell’anno. Creato da Vittorio Giardino nel 1982, Max Fridman è un ebreo ginevrino ex agente dei servizi segreti francesi, protagonista di spy story dall’ampio respiro, sia per la lunghezza sia per l’afflato narrativo, ma anche per una dimensione da romanzo storico se non politico, prossima a un Graham Greene. Questo dei cugini del protagonista, ebrei austriaci privati dei loro diritti nel 1938, non è solo il racconto dell’infinita tortura nel cercare di ottenere dei visti per l’espatrio, e s’incastra con tutte le altre storie di Max Fridman: si apre a Vienna nell’aprile 1938, poco prima dell’annessione dell’Austria alla Germania e poco dopo Rapsodia ungherese, prima avventura di Fridman, nella Budapest del febbraio di quell’anno; prima della seconda storia, La porta d’oriente, ambientata a Istanbul nell’estate del 1938, che si chiude alla vigilia dello smembramento della Cecoslovacchia; e prima della lunga trilogia di No pasarán, ambientata durante la guerra di Spagna nell’autunno di quell’anno. La seconda parte di questo racconto si chiude sempre in Austria ma nel dicembre 1938. Narrazioni prese nella morsa, proprio come le vicende delle persone comuni nella morsa della grande storia. Una costante nell’opera del maestro bolognese. Un racconto appassionante ed elegante, con personaggi vivi e reali, di una qualità plastica e coloristica d’altri tempi.

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Questo articolo è uscito sul numero 1619 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati