Un ragazzo scompare lasciando a casa documenti e cellulare e tutti s’interrogano su questa scomparsa. Dalla sua assenza e dalla sua ricerca fioriscono le altre storie, quelle di altri ragazzi e ragazze, in particolare la storia di Francesco, che apre e chiude il racconto e che rappresenta l’essere umano ferito e liberato simbolicamente per tutti quanti, in questa ampia storia corale e intergenerazionale di madri abbandonate, di uomini ora maturi ma rimasti soli perché hanno avuto paura dell’amore, di coppie dissestate ma comunque legate (i genitori di Francesco). In quello che già si rivela come uno dei capolavori dell’anno, Zuzu non solo racconta con finezza e crudezza, unite in una perfetta osmosi grazie a dialoghi cesellati con psicologia profonda, uno spaccato unico di esseri umani di oggi. Ma, da gran giocoliera-poeta delle forme e dei colori, grazie a lunghe sequenze solo visive, dalle vignette piccolissime o grandissime, lavora magistralmente sulla contemplazione globale delle tavole, dà un senso onirico continuato alle situazioni reali e conferisce una forza visionaria alle proiezioni mentali dei personaggi, con sequenze mai viste. Siamo tutti disadattati, ci dice Zuzu. Ma lei, lontana anni luce dal nichilismo, riesce a costruire un capolavoro di umanità e di speranza, un racconto addirittura edificante ma privo di ogni retorica, partendo dalle persone comuni, da noi. Perché Zuzu è un genio.
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Questo articolo è uscito sul numero 1617 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati