Il momento è storico: l’Unione europea sta per prendere in prestito la prima parte degli 807 miliardi di euro che dovranno finanziare la ripresa, un debito comune che vincolerà gli europei per i prossimi trent’anni. Fino a un anno fa nessuno ci avrebbe creduto. Questo passo è dovuto al fatto che le economie dell’Unione sono così interconnesse che non sostenere i paesi del sud più colpiti dalla crisi, che sono anche i clienti e i fornitori dei cosiddetti stati “frugali” (Finlandia, Paesi Bassi, Danimarca e Svezia), sarebbe come darsi la zappa sui piedi. Ma non bisogna sminuire la portata di questa svolta. I francesi cominciano a preparare gli altri paesi all’idea: vogliono rendere permanente il debito comune, nonostante i frugali avessero ottenuto la promessa che non si sarebbe ripetuto. La partita è aperta, ma i prossimi mesi si annunciano interessanti. Prima di tutto perché ogni paese esaminerà con attenzione i piani di rilancio degli altri. C’è da notare che gli olandesi non hanno ancora presentato il loro, mentre Italia, Spagna, Portogallo e Grecia dovrebbero ottenere a breve il via libera della Commissione europea. Basterà a creare la fiducia reciproca che era mancata all’inizio della pandemia? Poi bisognerà pensare a come rimborsare il debito. L’accordo con gli Stati Uniti sull’aliquota minima globale ha messo in discussione il piano di una tassa europea sulle aziende digitali. Un’imposta doganale sulle emissioni di gas serra potrebbe suscitare accuse di protezionismo. Altre soluzioni verdi sono osteggiate dai paesi dell’est. Senza queste entrate bisognerà tagliare le spese. La Commissione non ha pensato all’ironia quando ha battezzato il piano di rilancio “Next generation Eu”: il regalo fatto alla prossima generazione non deve trasformarsi in un fardello. ◆ gac

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Questo articolo è uscito sul numero 1414 di Internazionale, a pagina 17. Compra questo numero | Abbonati