Il 7 febbraio 2025 gli Stati Uniti hanno tagliato gli aiuti al Sudafrica, con la scusa di una inesistente minaccia per gli agricoltori bianchi rappresentata da una legge sugli espropri di terre recentemente approvata dal governo. Per capire meglio cosa c’è dietro questa decisione, il Sudafrica dovrebbe guardare a nord. L’economia dello Zimbabwe è stata schiacciata dalle sanzioni che gli sono state imposte dopo la ridistribuzione dei terreni agricoli all’inizio degli anni duemila.

Nel luglio 2020, in piena pandemia, Harare ha accettato di pagare 3,5 miliardi di dollari di risarcimenti a circa quattromila proprietari bianchi di quei terreni. La somma era stata promessa in un momento in cui il paese si trovava “sull’orlo di una carestia causata dagli esseri umani”, come avevano denunciato le Nazioni Unite.

L’accordo era il frutto di anni di pressioni esercitate dai funzionari zimbabweani per convincere gli Stati Uniti a revocare una legge del 2001, conosciuta con l’acronimo Zdera, che da vent’anni bloccava l’accesso di Harare ai prestiti e agli aiuti internazionali. Nel 2020, però, lo Zimbabwe non era riuscito a pagare, e la legge statunitense è rimasta in vigore. I primi risarcimenti, per un totale di tre milioni di dollari, sono stati annunciati il 9 aprile.

Ingiustizie coloniali

Generalmente la riforma agraria dello Zimbabwe è presentata come un progetto avventato condotto da un presidente autoritario, Robert Mugabe, che portò il paese al tracollo economico. Ma le cose non stanno esattamente così. Quando lo Zimbabwe era una colonia britannica gli africani non potevano possedere terre al di fuori delle riserve indigene. Alla metà del novecento 48mila coloni bianchi controllavano più di venti milioni di ettari di terre di prima qualità, mentre un milione di africani vivevano confinati su otto milioni di ettari di terreni per lo più improduttivi. Quell’ingiustizia alimentò la guerra di liberazione dello Zimbabwe.

Nel 1979 gli accordi di Lancaster house (il palazzo del centro di Londra dove s’incontrarono i rappresentanti del movimento di liberazione zimbabweano con quelli della corona britannica) misero fine al dominio della minoranza bianca, stabilendo che per dieci anni la riforma agraria si sarebbe limitata alle compravendite di terre, mantenendo intatto l’assetto coloniale della proprietà terriera. Nonostante queste limitazioni negli anni ottanta lo Zimbabwe fece progressi significativi in termini di sviluppo umano. Alla fine di quel decennio, però, la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale imposero un piano economico di aggiustamento strutturale che portò a una drastica riduzione della spesa pubblica, alla cancellazione dei sussidi e alla privatizzazione delle aziende statali. I risultati furono la disoccupazione di massa, il peggioramento dei servizi e l’aggravarsi della povertà.

Nel 2000, di fronte alla pressione interna, il governo di Mugabe avviò la ridistribuzione forzata delle terre. Il programma aveva dei gravi difetti: per esempio, non dava abbastanza sostegno ai nuovi proprietari e non aveva risorse sufficienti per ricostruire le filiere agricole. Eppure, smentendo le previsioni più disastrose, ne beneficiarono migliaia di zimbabweani senza terra, mentre una piccola élite di coloni bianchi perse i suoi privilegi.

La reazione internazionale fu immediata e punitiva. Nel 2001 gli Stati Uniti approvarono lo Zdera, interpretando le azioni di Harare come una minaccia alla politica estera statunitense. Il Regno Unito, l’Unione europea, l’Australia e il Canada adottarono a loro volta misure punitive. Per vent’anni lo Zimbabwe è rimasto intrappolato in un ciclo di isolamento economico, senza la possibilità di ottenere prestiti e investimenti.

Il costo umano è stato imponente. Gli esperti di diritti umani delle Nazioni Unite hanno più volte denunciato che lo Zdera ha avuto un “effetto domino insidioso” sull’economia zimbabweana e sulla tutela dei diritti fondamentali. Secondo la Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale (Sadc), dal 2001 lo Zimbabwe ha perso la possibilità di ricevere più di cento miliardi di dollari di aiuti internazionali.

L’accordo sui risarcimenti del 2020 è ironicamente crudele. Lo Zimbabwe in bancarotta deve chiedere in prestito miliardi di dollari per risarcire i vecchi colonialisti, nella speranza che sia cancellata la legge statunitense. Si trova in una trappola perfetta: un paese costretto a finanziare la sua sottomissione, mentre la sua popolazione soffre.

Battaglia planetaria

Questa storia non riguarda solo lo Zimbabwe. L’amministrazione Trump ha attaccato la riforma agraria (molto più cauta) del Sudafrica dichiarando il falso, cioè che il governo “confisca le terre degli agricoltori bianchi”. Questa propaganda, amplificata da siti e giornali di estrema destra, non tiene conto del fatto che il paese cerca di rimediare a una situazione immutata dall’epoca dell’apartheid: ancora oggi i sudafricani bianchi (l’8 per cento della popolazione) controllano il 72 per cento delle terre coltivabili.

Trump non vuole tutelare i diritti di proprietà, ma un sistema globale che favorisce gli ex colonizzatori. La lotta per una giusta ridistribuzione delle terre in Zimbabwe, in Sudafrica e in tutto il sud del mondo non è una battaglia solo locale, ma planetaria.

Una volta Thomas Sankara, il leader rivoluzionario del Burkina Faso, disse che il debito è “una riconquista dell’Africa sapientemente organizzata”. La drammatica situazione dello Zimbabwe lo dimostra. La comunità internazionale deve ancora fare i conti con l’eredità del colonialismo e con i sistemi che lo perpetuano.

La riforma agraria dello Zimbabwe è stata imperfetta, ma era necessaria. La vera tragedia sono state le ritorsioni globali contro un paese che aveva sfidato lo status quo. È arrivato il momento di revocare le sanzioni, cancellare i debiti e consentire allo Zimbabwe, al Sudafrica e agli altri paesi di perseguire la giustizia alle proprie condizioni. ◆ fdl

Elizabeth Mpofu è un’attivista zimba­bweana per il diritto alla terra. Raj Patel è uno scrittore britannico esperto di sovranità alimentare.Varsha Gandikota-Nellutla è coordinatrice generale dell’organizzazione Progressive international.

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Questo articolo è uscito sul numero 1610 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati