L’8 e 9 giugno si andrà a votare anche per modificare la legge numero 91 del 1992 che regola l’acquisizione della cittadinanza in Italia, una norma che ha più di trent’anni e che si è cercato di cambiare fin dalla sua entrata in vigore, perché già allora non rispondeva alle esigenze della società. Come molti paesi con un alto numero di emigrati l’Italia ha favorito la trasmissione della cittadinanza secondo lo ius sanguinis, “con il sangue”, per mantenere un legame con i cittadini italiani che vivevano all’estero e contribuivano allo sviluppo del paese attraverso le rimesse. Ma non ha approvato misure per favorire la naturalizzazione delle persone straniere che risiedono sul territorio italiano e dei loro figli, anche se è dalla fine degli anni novanta che si parla di adottare lo ius soli (cioè del diritto di cittadinanza legato al luogo di nascita) o lo ius culturae (diritto di cittadinanza legato ad aver frequentato almeno un ciclo scolastico in Italia).

La legge del 1992 ha rafforzato il principio dello ius sanguinis proprio per favorire gli italiani all’estero, mentre ha introdotto tempi più lunghi per la naturalizzazione degli stranieri residenti. E ha reso più difficile per i loro figli acquisire la cittadinanza italiana, perché ha introdotto l’obbligo di residenza continuativa e legale nel paese fino al compimento del diciottesimo anno di età. Si è quindi creato un divario tra i diritti riconosciuti ai discendenti degli italiani all’estero e quelli negati agli immigrati residenti in Italia.

Il primo tentativo di cambiare una legge che è tra le più restrittive d’Europa risale al 1999. Il testo prevedeva che i bambini nati in Italia da famiglie straniere potessero chiedere la cittadinanza all’età di cinque anni, se i genitori dimostravano di essere residenti in Italia da almeno cinque anni. L’idea era evitare che i bambini cominciassero a frequentare la scuola dell’obbligo avendo meno diritti dei nati in Italia da genitori italiani. Il progetto di riforma fallì, ma alcune parti della proposta di legge rimasero nei testi successivi.

Integrazione in salita

Nel 2006 l’allora ministro dell’interno Giuliano Amato propose una nuova riforma che fu ostacolata dai partiti d’opposizione, anche se un sondaggio aveva evidenziato che la maggior parte degli italiani era d’accordo con il testo. L’opposizione ebbe molto spazio nelle discussioni televisive e nei dibattiti pubblici e questo influenzò negativamente i lavori nella commissione affari costituzionali. Nel 2009 i deputati Andrea Sarubbi (Pd) e Fabio Granata (Popolo della libertà, Pdl) proposero una riforma bipartisan che però si fermò nel 2010 per il timore del Pdl di esporsi su questo tema. La proposta prevedeva che i nati in Italia da genitori stranieri potessero ottenere la cittadinanza italiana a diciotto anni se risiedevano in Italia da almeno cinque, superando un test di “integrazione civica e linguistica” e giurando sulla costituzione. Inoltre sarebbero potuti diventare italiani i figli di immigrati residenti in Italia da almeno cinque anni e quelli che avevano completato un ciclo di studi.

Dopo questo tentativo una ventina di associazioni lanciarono la campagna “L’Italia sono anche io”, una raccolta di firme che permise di presentare in parlamento una legge di iniziativa popolare. La campagna fu sostenuta dall’allora sindaco di Reggio Emilia Graziano Delrio. Il testo fu depositato alla camera il 5 febbraio 2012. Il 13 ottobre 2015 fu approvata dalla camera una riforma che inglobava la legge d’iniziativa popolare e altre venti proposte di legge presentate in parlamento. Tuttavia la norma – che prevedeva lo ius soli temperato (per cui potevano ottenere la cittadinanza italiana i bambini nati in Italia che avessero almeno un genitore in possesso del permesso di soggiorno permanente o del permesso di soggiorno europeo di lungo periodo) e lo ius culturae – è rimasta bloccata in senato per due anni ed è poi stata definitivamente bocciata nel dicembre 2017.

Da allora ne sono state presentate altre. Nell’estate 2024 si è parlato di un testo di Forza Italia, sostenuto da Antonio Tajani, il cosiddetto ius scholae, che intendeva legare alla frequenza di almeno dieci anni di scuola in Italia la possibilità di acquisire la cittadinanza, ma il progetto non è stato inserito nell’agenda del parlamento. In contemporanea è stata lanciata la raccolta firme per il referendum abrogativo da associazioni e partiti, tra cui la principale organizzazione di figli e figlie di stranieri in Italia, Italiani senza cittadinanza. Lo scorso marzo il governo di Giorgia Meloni ha riformato la legge del 1992 con un decreto che inserisce ulteriori restrizioni sia per i discendenti di italiani residenti all’estero, sia per un’altra categoria di cui si parla poco: i figli minori di genitori stranieri che hanno acquisito la cittadinanza italiana. Con questa modifica molti minori rischiano di restare esclusi dal percorso di naturalizzazione familiare. Il referendum abrogativo dell’8 e 9 giugno tenta di introdurre un piccolo cambiamento alla legge del 1992, portando a cinque, invece degli attuali dieci, gli anni di soggiorno legale continuativo necessari per fare richiesta della cittadinanza.

Secondo un rapporto del centro studi e ricerche Idos, se vinceranno i sì i beneficiari della riforma potrebbero essere 1,42 milioni di residenti non comunitari, cioè uno straniero su quattro tra quelli che vivono regolarmente in Italia. In particolare gli adulti sarebbero 1,13 milioni, tutti titolari di un permesso di soggiorno di lunga durata. I minori sarebbero 284mila, dei quali 229mila residenti di lunga durata e 55mila che, pur non avendo il requisito previsto dalla riforma, diventerebbero italiani perché i genitori gli trasmetterebbero la cittadinanza grazie alla modifica referendaria. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1617 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati