In un afoso pomeriggio estivo, davanti a una fontana alimentata da una sorgente, Giuseppe Rizzo, 37 anni, riempie la sua autocisterna per rifornire le famiglie rimaste senz’acqua corrente. In questo angolo della Sicilia nordoccidentale l’acqua della rete idrica comunale arriva nelle case di tanto in tanto, a volte solo per poche ore nell’arco di 12 o 13 giorni, costringendo gli abitanti ad acquistare grandi cisterne per fare scorta da sistemare sui tetti o addirittura dentro casa. Quando anche quelle sono vuote e i rubinetti ancora chiusi, i residenti si affidano ad aziende private come quella di Rizzo, che ha quattro autocisterne. Rizzo vende carichi d’acqua a prezzi che variano da 40 a 120 euro, in base al volume acquistato e alla distanza dalla fonte. “Offriamo un servizio alle persone”, spiega Rizzo mentre aspetta che il suo camion si riempia accanto alla fontana nei pressi del centro di Racalmuto. “Se non lo facessimo, sarebbe un grosso problema”.
Le carenze idriche della provincia di Agrigento sono l’esempio lampante del problema della dispersione d’acqua nelle città italiane: più della metà di quella convogliata nei vecchi acquedotti della provincia di Agrigento si perde durante il trasporto.
Ridurre il consumo
Secondo gli esperti, ridurre la dispersione idrica è fondamentale per assicurare un approvvigionamento appropriato in un mondo sempre più caldo e con precipitazioni ormai irregolari. L’Unione europea ha invitato i vari stati a ridurre il consumo d’acqua del 10 per cento entro il 2030, ma poiché l’Europa già affronta siccità ricorrenti e durature, eliminare la dispersione d’acqua diventa fondamentale.
Secondo l’Associazione europea dei gestori di servizi idrici (EurEau), in media le città e i paesi italiani perdono il 42 per cento dell’acqua potabile immessa nella rete, più di tutte le altre grandi economie europee e molto al di sopra della media comunitaria, che è del 25 per cento.
I dati dell’Istat indicano che nel 2024 nel sud dell’Italia le interruzioni della fornitura idrica hanno coinvolto quasi il 30 per cento delle famiglie. Mentre se si considerano tutte le famiglie italiane la percentuale è all’8,7 per cento. Sempre secondo l’Istat nel 2022 l’Italia ha perso 3,4 miliardi di metri cubi d’acqua durante la distribuzione, una quantità che sarebbe sufficiente a soddisfare le necessità di 43,4 milioni di persone in un anno.
“Dipendiamo ancora dagli investimenti fatti dai nostri nonni, che hanno finanziato la costruzione delle condutture che usiamo oggi”, spiega Fabrizio Palermo, amministratore delegato dell’Acea, azienda che si occupa della distribuzione dell’acqua a Roma. “Dobbiamo trovare i fondi per costruire nuove condutture”.
Pochi soldi
Finanziare gli ammodernamenti, però, è complicato in un paese che ha le tariffe idriche tra le più basse d’Europa. In Italia le reti idriche urbane sono gestite quasi sempre da enti pubblici inefficienti e amministrati da politici locali che non vogliono alimentare lo scontento degli elettori incrementando i prezzi e sono incapaci di trovare altri finanziamenti. “La vicenda delle condutture e delle perdite è una questione economica”, spiega Giulio Boccaletti, direttore scientifico del Centro euro-mediterraneo per i cambiamenti climatici, con sede a Bologna. “Per ridurre le perdite, le amministrazioni comunali dovrebbero riparare le tubature, ma la gran parte di queste si trova in comuni piccoli che non hanno abbastanza soldi”.
L’Italia ha destinato al miglioramento della rete idrica nove miliardi del fondo per la ripresa post-covid finanziato dall’Unione europea, ma secondo l’Acea servirebbero 50 miliardi solo per gli interventi più urgenti.
Le principali città italiane hanno fatto dei progressi per risolvere il problema. Secondo i dati dell’Acea, a Roma le perdite sono passate dal 42 per cento del 2017 al 27 per cento nel 2022, soprattutto grazie a investimenti superiori ai due miliardi di euro. Milano perde appena il 13,4 per cento dell’acqua immessa nella rete. Le città più piccole, invece, sono riluttanti all’idea di chiedere l’intervento di aziende specializzate, a volte perché segnate da esperienze con imprese private senza scrupoli. Ad Agrigento l’antiquata rete idrica era gestita da un’azienda privata che nel 2018 è stata posta sotto sequestro perché sospettata di collusione con la mafia. Oggi la distribuzione dell’acqua è affidata all’Aica, un consorzio composto da 37 amministrazioni che, secondo gli esperti, non ha le risorse tecniche e finanziarie per ridurre le perdite, che attualmente sono del 50-60 per cento. “Esiste una forte ostilità nei confronti della gestione privata”, riconosce Alfonso Provvidenza, sindaco di Grotte, uno dei comuni del consorzio Aica. “Quando proponiamo una collaborazione tecnica, commerciale o strategica per migliorare le nostre competenze, tutti ci accusano di voler privatizzare l’acqua”, spiega.
Secondo Giuseppe Riccobene, ingegnere civile siciliano, anche quando hanno denaro da investire, spesso le amministrazioni lo spendono male perché i politici preferiscono ricompensare i loro elettori con lucrosi contratti di riparazione. “Se hai una conduttura con dieci falle non dovresti fare dieci riparazioni, ma cambiarla”, sottolinea Riccobene, che ad Agrigento collabora con Legambiente. “Se la ripari dieci volte, farai guadagnare le aziende di proprietà dei tuoi amici, ma il problema resta, perché la conduttura ha esaurito la sua vita utile”, spiega.
Alle perdite causate dalle falle spesso si aggiungono i furti, con allacci illegali che deviano l’acqua verso consumatori abusivi. Questo fenomeno aumenta la pressione finanziaria sulle aziende di distribuzione, già in difficoltà. “Non esiste alcuna volontà politica di contrastare i furti e le perdite. Sarebbe facile, ma bisogna volerlo”, accusa Riccobene. Così i cittadini sono costretti a pagare di tasca propria.
L’idraulico Vincenzo Ippolito riceve 7-8 telefonate al giorno da famiglie che vogliono aumentare la capacità di stoccaggio dell’acqua, con costi che variano da 700 euro per una cisterna di plastica da cinquemila litri da mettere sul tetto, a 1.500 euro per un serbatoio di cemento che va interrato. Nel secondo caso vanno aggiunti mille euro per lo scavo. Nel centro storico di Racalmuto i residenti che non hanno spazio sul tetto o sottoterra e sono costretti a mettere le cisterne all’interno delle abitazioni. “I bacini sono pieni, ma l’acqua non arriva mai. La gente vuole nuove cisterne”, spiega Ippolito.
Anche ricorrendo alle scorte, le famiglie devono comunque preoccuparsi delle interruzioni dell’acqua. Maria Concetta Frangiamone, 61 anni, manda suo marito a controllare il livello delle cisterne ogni due giorni e si consulta con i vicini per scoprire quando il comune aprirà i rubinetti. Quando sua figlia va a trovarla lei chiama l’autobotte di un’azienda privata per essere sicura di non rimanere senz’acqua. “È una tragedia”, ammette Frangiamone, talmente esasperata da aver deciso di non pagare le ultime due bollette dell’Aica, che non subiscono quasi nessuna variazione nonostante le oscillazioni nella fornitura.
Peppe Manno vive in un condominio in cui cinque famiglie condividono una cisterna da diecimila litri, che si svuota senza preavviso: “Arrivi a casa, apri il rubinetto per farti la doccia e non esce acqua. Abituarsi è impossibile”.
Nel centro di Agrigento i residenti spesso fanno scorte d’acqua alla fontana di Bonamorone, alimentata da una sorgente. Salvatore Vella, pompiere in pensione, ferma la sua auto davanti alla fontana e riempe 15 bottiglie di plastica da due litri. Vella e la moglie hanno una cisterna da diecimila litri per la doccia e le faccende domestiche. L’acqua da bere, invece, la comprano al supermercato. Oltre a tutto questo, ogni settimana Vella preleva trenta litri d’acqua dalla fontana, da usare in cucina. “Per noi questa è la norma”, spiega mentre carica le bottiglie in auto. “È la nostra vita”. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1631 di Internazionale, a pagina 35. Compra questo numero | Abbonati