Nel 1966 il mensile statunitense McCall’s pubblicò un articolo della scrittrice pacifista Charlotte E. Keyes il cui titolo era un’accattivante citazione di un vecchio poema degli anni trenta. Nel giro di poco, “Supponiamo che dichiarino la guerra e nessuno ci vada” diventò uno degli slogan del movimento pacifista che si batteva contro la guerra del Vietnam (e il titolo di un dimenticabile film con Tony Curtis).

Come tutti gli slogan, funziona perché mette il lettore di fronte a un’idea in un primo momento spiazzante, ma che più la si considera più appare ovvia. Cosa accadrebbe se, davvero, una volta dichiarata una guerra – da qualche politico senza scrupoli o da qualche anziano monarca – i soldati destinati al massacro nelle trincee semplicemente decidessero di non presentarsi in caserma?

È una frase che rivela una verità banale ma importante: senza gli uomini e le donne che, costretti o per loro volontà, si trovano a maneggiare un fucile (o, in passato, una lancia o una fionda) non ci sarebbero guerre. Per questa ragione, i combattenti, soldati e soldate, cavalieri, miliziani e perfino “terroristi”, sono i protagonisti della prima puntata del nuovo podcast di Internazionale, Guerra, che ha l’obiettivo di raccontare che cos’è e che cos’è stata la guerra, oggi che i conflitti sembrano improvvisamente tornati centrali nella nostra vita politica e culturale.


Ascolta il podcast | Guerra, primo episodio: “Combattenti”


Io sono Davide Maria De Luca, giornalista di guerra che vive in Ucraina, appassionato di storia militare e di tutto ciò che riguarda i conflitti. Quella che state leggendo è una guida all’ascolto del primo episodio, in cui ho raccolto approfondimenti, link e citazioni. Leggetela dopo l’ascolto, se volete capire meglio certi dettagli. O prima, se siete di quelli che non hanno paura degli spoiler e a cui piace arrivare in battaglia già preparati.

Donne in armi

Fin da quando ho pensato per la prima volta a questo podcast, ho deciso che avrei iniziato parlando di una soldata. La guerra è una delle ultime grandi fortezze della mascolinità non solo ancora da espugnare, ma il cui assedio è a malapena cominciato. Per questo è importante stabilire fin dall’inizio che, in un modo o nell’altro, la guerra è un fenomeno che ha sempre riguardato tutti i generi.

Da quando abbiamo registrato la prima puntata, nuovi dati indicano che il numero di donne nelle forze armate ucraine è salito a più di 60mila. Si tratta di circa il 7 per cento di tutti i soldati ucraini. Nell’Armata rossa, al culmine della seconda guerra mondiale, le donne erano 470mila: il numero più alto mai registrato in qualsiasi esercito della storia. La scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievič, premio Nobel per la letteratura, ha raccontato le loro storie nel libro La guerra non ha un volto di donna.

Ci sono armate che, in tempo di pace, hanno avuto percentuali di donne ancora più alte. In Svezia, per esempio, le donne sono quasi un quarto del personale militare. Ma se consideriamo gli eserciti in guerra, quello ucraino resta, in proporzione, uno dei più femminili al mondo.

Mobilitazione in Ucraina

In Ucraina è in vigore la mobilitazione di massa prevista dalla legge marziale, cioè la legislazione speciale del tempo di guerra. Caso unico nella storia, la mobilitazione esclude i più giovani. Dal 24 febbraio 2022 tutti i maschi ucraini tra i 27 e i 60 anni d’età possono essere reclutati nell’esercito. Nel 2024 la soglia d’età è stata abbassata a 25 anni. Ma chi ha tra i 18 e i 24 anni – quelli che per millenni sono stati il cuore di ogni gruppo di combattenti – è escluso.

Ci sono molte ragioni per questa “unicità”, ma la principale è la crisi demografica che ha colpito il paese dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Nel 1991 l’Ucraina aveva 52 milioni di abitanti, scesi a 41 alla vigilia dell’invasione. A causa dell’emigrazione, il paese ha uno dei tassi di fertilità più bassi al mondo e un bassissimo numero di persone tra i 18 e i 25 anni rispetto al totale della popolazione. L’opinione comune nel paese è che sacrificando questa generazione in trincea l’Ucraina pregiudicherebbe il proprio futuro, perché a quel punto non ci sarebbero abbastanza giovani ucraini a garantirlo.

Non sappiamo esattamente quanti soldati ci siano nell’esercito ucraino, ma probabilmente sono più di 800mila e meno di un milione. Se contiamo morti, feriti, disertori e congedati, è possibile che negli ultimi tre anni più di un milione di persone abbia servito nelle forze armate di Kiev.

Difficile dire quante siano sul totale della popolazione, visto che anche su questo dato c’è molta incertezza. C’erano 41 milioni di persone in Ucraina al momento dell’invasione. Oggi si stima che nelle aree controllate dal governo di Kiev ne vivano circa 28-29 milioni.

Per darvi un’idea: allo scoppio della seconda guerra mondiale, l’Italia fascista aveva circa 40 milioni di abitanti e prima della fine del conflitto 4-5 milioni passarono, in un modo o nell’altro, per le forze armate, cioè quasi un quarto della popolazione. Ovviamente, l’Italia del 1941 era un paese più giovane dell’Ucraina di oggi. Resta comunque notevole notare che per il momento, l’Ucraina ha mobilitato meno di un decimo della popolazione maschile ancora residente nel paese.

Farfallone amoroso

Lo storico Franco Cardini è stato il primo, che io sappia, a usare l’aria delle Nozze di Figaro per raccontare il crescente distacco tra vita civile e militare nell’Europa preindustriale. Lo fa nel libro Quell’antica festa crudele, una storia culturale della guerra nell’Europa preindustriale, fondamentale non solo per le informazioni che contiene (pubblicato nel 1982 è, per alcuni aspetti, un po’ datato), quanto per la sua capacità di far comprendere al lettore quanto la guerra non sia un aspetto separato della civiltà umana, un universo a sé stante con le sue regole, ma un fenomeno profondamente intrecciato con la cultura, l’economia e le società dell’epoca in cui si svolge. Non ho mai letto nessuno abile come Cardini nello spiegare che per comprendere la guerra serve conoscere anche l’economia, la tecnologia, le strutture sociali e, perfino, le ariette d’opera.

Valmy, 1793

Se parliamo di eserciti di massa nati da mobilitazioni generali, non possiamo non nominare la battaglia di Valmy. Siamo nel 1793 e la Francia rivoluzionaria è sotto assedio delle monarchie assolute europee. Un esercito prussiano, il migliore d’Europa, è in marcia verso Parigi. A difendere la capitale c’è un’armata francese dimezzata dalle diserzioni degli ufficiali aristocratici, i cui vuoti sono stati riempiti in tutta fretta mobilitando i sanculotti parigini, i proletari che tre anni prima avevano preso d’assalto la Bastiglia.

I prussiani non hanno dubbi: di fronte a un esercito professionale, un’armata del genere non può far altro che ritirarsi. Iniziano ad avanzare, ma i francesi non si muovono dalla collina che occupano. I prussiani sono perplessi. Quando una cannonata prussiana fa esplodere un deposito di munizioni nel mezzo delle posizioni francesi, tutti pensano che il momento sia arrivato: “Ora scappano”. Gli ufficiali a cavallo prussiani si alzano sulle staffe e allungano il collo per vedere cosa combinano i francesi. Ma invece di una rotta disordinata vedono il generale francese infilzare il suo cappello sulla sciabola e gridare alle sue truppe: “Compagni, ecco il momento della vittoria, andiamogli addosso!”. I soldati entusiasti rispondono: “Viva la nazione!”. “Se questi matti vogliono perfino andare all’attacco, è meglio non scherzarci”, si dicono i prussiani e danno l’ordine di ritirarsi. La Prussia è umiliata, la Francia è salva.

A quanto pare, distruggere l’assolutismo, abolire i privilegi aristocratici e includere i più poveri nei processi decisionali che li riguardano ha avuto l’effetto collaterale di creare un nuovo tipo di esercito che l’Europa non aveva mai visto fino a quel momento. Un esercito di cittadini-soldato. “In questo giorno e in questo luogo è iniziata una nuova storia”, commentò il grande poeta tedesco Goethe, che assisté all’episodio e scrisse questo breve passaggio nel 1822, dopo aver visto i cittadini-soldato francesi conquistare mezza Europa nei trent’anni successivi alla battaglia.

Da allora il nazionalismo è diventato il principale strumento di persuasione usato dalle élite di tutto il mondo per convincere gli altri a farsi ammazzare. Ma la battaglia di Valmy dimostrò anche che questi si fanno ammazzare ancora più volentieri se, oltre alle bandiere, con quel nazionalismo condividono anche qualcosa di concreto.

Banditi!

La tradizionale storiografia militare ha eretto una sorta di muro epistemologico tra gli eserciti veri e propri e tutti gli altri combattenti, come se le due esperienze fossero campi completamente separati. In anni recenti si è perfino creata una nuova terminologia, le cosiddette new wars, per indicare una serie di conflitti tra attori non statuali – guerre civili, operazioni di controinsurrezione – che sembravano essere diventati i più diffusi nel secondo dopoguerra e in particolare dopo la caduta dell’Unione Sovietica.

C’è molta miopia e molto eurocentrismo dietro questo modo di procedere: l’idea che la guerra, per essere “guerra vera”, debba essere, in fondo, quella napoleonica, combattuta da ufficiali con decorazioni dorate sotto bandiere spiegate; e che se invece a combattere sono pastori sulla cima di una collina, allora siamo di fronte a qualcos’altro, qualcosa di tutto sommato meno dignitoso, perfino meno legittimo, ci dicono le moderne leggi di guerra.

Secondo queste leggi, l’attacco partigiano di via Rasella nella Roma del 1944 costituirebbe un crimine di guerra. Carla Capponi e gli altri undici membri del commando, indossando abiti civili durante l’attacco al battaglione di polizia militare tedesco, avrebbero infatti commesso il crimine di perfidia, poiché erano vestiti da civili, una categoria protetta dalle leggi di guerra.

Altre letture

Serve un bel cambio di passo mentale per iniziare a guardare alla guerra non dal punto di vista a volo d’uccello di generali e capi di stato maggiore, ma da quello, a livello del suolo – o perfino sottoterra – degli umili protagonisti, i soldati e le soldate. O almeno, c’è voluto a me. Ad aiutarmi di più è stato un libro che ho letto al liceo: Gloria o morte (Il Saggiatore 2001), una storia della guerra di Crimea (1853-1856) dell’antropologo statunitense Robert B. Edgerton.

Da buon antropologo, Edgerton non si cura nemmeno di descrivere gli sviluppi che di solito piacciono ai militari – le manovre sul campo, le decisioni dei generali – e si concentra invece nel raccontare l’esperienza dei soldati: le loro aspettative, la loro preparazione, le condizioni igieniche e sanitarie, cosa mangiavano e cosa cantavano (molte arie d’opera, nel caso dei bersaglieri piemontesi).

La guerra di Crimea è nota tra gli storici per essere stata la prima guerra moderna, con l’uso del telegrafo, moderni fucili e cannoni a lungo raggio che costringevano i soldati a vivere affondati in trincee fangose. Fu la prima guerra segnata dalla presenza dei corrispondenti dei grandi giornali e la prima a essere fotografata. Anche per questo, forse, fu la prima di cui abbiamo ampi racconti di testimoni diretti del disastro logistico che la accompagnò, con migliaia di soldati lasciati morire di freddo o di malattia mentre i generali dormivano in lussuosi yacht ormeggiati al largo della costa.

La qualità del libro di Edgerton è che mostra un orrore realistico e che a noi suona estremamente vicino, pur descrivendo un’epoca che siamo abituati a guardare attraverso le lenti dei grandi dipinti a olio, in cui la guerra è splendida e colorata come in un ballo di gala (una profonda lezione che ci ricorda la vera natura dei conflitti anche quando il trascorrere del tempo ha finito col dargli una patina affascinante).

Durante la guerra di Crimea è ambientato il breve romanzo Una nobile follia, in cui, nello stile febbrile degli scapigliati milanesi, lo scrittore Iginio Ugo Tarchetti racconta la sua esperienza surreale sui campi di battaglia. Nell’impazzimento del protagonista, che in un momento convulso dell’azione riceve l’ordine di “erigere una trincea di cadaveri” per proteggersi da un assalto russo, Tarchetti metti in scena in modo presciente il tema dell’assurdità della guerra che sarà immortalato, più di mezzo secolo dopo, dagli scrittori reduci della prima guerra mondiale.

“Questi uomini che vi stanno dinanzi vengono a uccidervi perché li hanno ingannati, li hanno spinti dinanzi a voi, come voi lo siete stati dinanzi a loro: come voi essi avevano degli affetti, delle aspirazioni; avevano una fanciulla, una casa, un avvenire; come voi essi hanno pianto e sofferto; come voi hanno tutto perduto, le loro anime si sono istupidite come le vostre; il vostro destino, il vostro cómpito è pari – uccidere ed essere uccisi – carnefici e vittime ad un tempo, strumenti ciechi e passivi di pochi uomini scellerati ed astuti: tale è il vostro comune mandato”.

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