Mia nonna ha novant’anni. Esiliata due volte, prima da Israele durante la Nakba, poi dal regime di Assad in Siria, la sua memoria non funziona più bene. Della sua vita attuale in Svezia conserva solo gli ultimi minuti. Del suo passato qualche flash. Eppure il ricordo della sua infanzia a Kfar Sabt, un villaggio palestinese in Galilea svuotato nel 1948, risplende ancora vivo. Sorride, quasi maliziosamente, mentre racconta di quando giocava nei campi, correva in giro con gli altri bambini e spiava un contadino ebreo arrivato all’improvviso nel villaggio – insieme al suo rumoroso trattore – che suscitò curiosità e sospetto.
Io sono un rifugiato dalla nascita, la famiglia di mia nonna era di Kfar Sabt, quella di mio nonno del vicino villaggio di Lubya. Oggi nella mia casa di Ramallah mi sveglio ogni mattina con la vista di una bandiera israeliana nella vicina colonia di Beit El, un chiaro promemoria del regime di apartheid che governa ogni aspetto della mia vita. Gli ebrei israeliani che vivono lì votano per un governo che stabilisce dove posso vivere, lavorare e viaggiare, quanta acqua ricevo, quali regole e leggi si applicano a me e quali no. Come milioni di palestinesi, dalla Cisgiordania a Gaza, sono governato da un sistema che mi considera solo un ostacolo sulla strada del suo stato etnico ed espansionista.
Teatro politico
Questa realtà è diventata impossibile da ignorare per milioni di persone nel mondo, soprattutto dall’ottobre del 2023. Eppure negli ultimi mesi, invece di riconoscere che esiste un apartheid israeliano o intraprendere azioni significative per fermare le atrocità a Gaza, una schiera sempre più ampia di stati ha deciso di riconoscere un’altra cosa: uno stato palestinese.
La prima svolta è avvenuta nel maggio 2024, quando lo stato di Palestina è stato riconosciuto da Norvegia, Spagna e Irlanda (gli ultimi due paesi sono tra i più accesi oppositori della guerra d’Israele a Gaza). Ora c’è una seconda ondata, guidata da un’iniziativa di Francia e Regno Unito in risposta al piano israeliano di prolungare il conflitto, a cui si sono rapidamente aggiunti Australia, Canada, Portogallo e Malta (il 2 settembre anche il Belgio). Anche se indicativo del crescente isolamento internazionale di Israele, è impossibile accettare senza riserve questo teatro politico globale del “riconoscimento di uno stato palestinese” (148 paesi dell’Onu riconoscono la Palestina, oltre al Vaticano). Mentre Israele annette ampie zone della Cisgiordania ed è in corso un genocidio a Gaza che ha ucciso più di 60mila palestinesi, è assurdo continuare a invocare una soluzione dei due stati come compromesso ragionevole o pratico. Ancora più strano è insistere che questa sia l’unica risposta possibile, quando, a 77 anni dalla Nakba, non affronta la questione centrale: un regime aggressivo e militarista che pretende la supremazia nazionale, legale ed economica di un popolo su un altro.
L’arroganza degli europei
Non sprechiamo altri trent’anni di vite palestinesi in nome del paradigma della partizione: “soluzione” coloniale a un problema coloniale. Israele da tempo ha messo in chiaro che non accetterà mai uno stato palestinese: restare aggrappati alla soluzione dei due stati è una mistificazione all’ennesima potenza, e ci ha portato solo disperazione. Ora più che mai i gesti simbolici sono peggio che inutili, perché fanno guadagnare tempo al regime che commette i crimini e sottraggono urgenza agli unici rimedi che contano: mettere fine al genocidio, sanzionare i responsabili, isolare il sistema di apartheid e insistere su uguali diritti e sul diritto al ritorno. Non è estremismo. È il minimo indispensabile di giustizia. Una “soluzione” ingiusta e impraticabile non è un piano di pace, ma un alibi per l’inerzia, che consentirà a Israele di continuare i suoi massacri, accelerare l’espansione e consolidare l’apartheid. Davvero puniamo così un regime che ha commesso un genocidio? Offrendogli il dominio completo sulle sue vittime mentre diamo a queste la falsa speranza che un giorno potrebbero ottenere uno stato su meno del 23 per cento della loro terra?
E dove sono i palestinesi in tutto questo? Quando è stata l’ultima volta che siamo stati rappresentati democraticamente o ci è stato chiesto quale soluzione avremmo accettato? Come nel 1947, quando il piano di partizione delle Nazioni Unite fu redatto senza il nostro consenso, la recente spinta verso una soluzione dei due stati è guidata da potenze europee con poca considerazione per le persone che vivranno, o moriranno, in base alle loro condizioni. La Francia rende esplicita questa arroganza: minaccia Israele con il riconoscimento di uno stato palestinese, ma insiste che sarà smilitarizzato, continuando nel frattempo a fornire armi a Israele. Io sogno un mondo senza armi, ma non spetta ai mercanti di armi dire alle vittime di genocidio di deporre le proprie.
Nel frattempo, Israele sbuffa, condannando i riconoscimenti come un “premio al terrorismo” e usandoli come scusa per mettere in atto misure ancora più estreme. A luglio la knesset (il parlamento) ha approvato una risoluzione a sostegno dell’annessione della Cisgiordania, mentre l’espansione degli insediamenti continua a pieno ritmo, compreso il recente via libera al blocco E1, che secondo gli esperti renderebbe impossibile uno stato palestinese con continuità territoriale.
Ma anche se per miracolo Israele si ritirasse dalla Cisgiordania e da Gaza, cosa garantirà la sicurezza ai palestinesi nel nuovo stato? Quando mai la sovranità statale ha protetto qualcuno dalle aggressioni e dall’espansionismo d’Israele? Il Libano e la Siria sono paesi sovrani con confini internazionalmente riconosciuti, eppure la loro terra è stata occupata e le loro città bombardate. Una bandiera palestinese all’Onu non fermerà la crescita delle colonie, non smantellerà il regime militare né metterà fine alla guerra regionale.
◆ Il 29 agosto 2025 l’esercito israeliano ha dichiarato la città di Gaza “zona di combattimento pericolosa” e ha intensificato la sua operazione militare, che provoca decine di vittime ogni giorno. Il 2 settembre il ministero della sanità di Gaza ha fatto sapere che altre 13 persone sono morte di fame, portando il numero totale delle vittime a 361, compresi 130 bambini. Afp
Se i paesi vogliono riconoscere uno stato palestinese lo facciano pure, ma non devono fingere che questo cambi la realtà. Il vero cambiamento comincia ammettendo la verità: qui uno stato esiste già, ed è uno stato di apartheid. I paesi devono agire legalmente, diplomaticamente ed economicamente fino a che il costo che dovrà pagare Israele per mantenere l’apartheid non supererà i suoi benefici. Fino a quando la mia famiglia non avrà di nuovo un posto da poter chiamare casa, e fino a quando centinaia di comunità palestinesi sfollate non potranno tornare alla loro.
Il sionismo ha fallito, non solo perché creare una patria ebraica in Palestina a spese dei palestinesi è sempre stato ingiusto, ma perché la pulizia etnica e ora il genocidio sono i suoi logici risultati, atrocità che renderanno lo stato ebraico isolato e disprezzato. E, nonostante gli sforzi d’Israele, il sionismo ha fallito anche perché i palestinesi continuano ostinatamente a rimanere nella loro terra. Quello che resta oggi è un grottesco sistema di apartheid, in cui un popolo ha pieni diritti e sovranità, mentre i nativi sono massacrati, divisi e assoggettati. Alla fine potrebbe collassare sotto il peso della sua stessa brutalità, ma non se ne andrà in silenzio, resterà aggrappato alla vita con il tipo di violenza che oggi vediamo scatenata su Gaza.
Dalla finzione alla realtà
Riconoscere Israele come uno stato di apartheid è il primo passo necessario verso un futuro senza etnonazionalismo, fondato sull’uguaglianza, la giustizia e la libertà per tutti. E non è un passo simbolico: l’apartheid è un crimine contro l’umanità secondo il diritto internazionale. Lo statuto di Roma della Corte penale internazionale lo definisce così, e la convenzione internazionale dell’Onu sull’eliminazione e la repressione del crimine di apartheid obbliga gli stati ad attuare misure legislative, giuridiche e amministrative per contrastarlo e punirlo. Nel luglio 2024 la Corte internazionale di giustizia ha emesso uno storico parere consultivo sull’apartheid israeliano, concludendo che l’occupazione e l’annessione di territori palestinesi da parte di Israele viola il diritto internazionale, e invocando risarcimenti.
Riconoscere ufficialmente che il sistema israeliano si basa sull’apartheid, anche se lo facesse una manciata di stati, metterebbe sul tavolo questi obblighi e renderebbe legalmente e politicamente indifendibile continuare a sostenere militarmente ed economicamente Israele. Aprirebbe la porta alle sanzioni, al ritiro delle rappresentanze diplomatiche e ai divieti di viaggio per i funzionari che sostengono il sistema. Sposterebbe il discorso pubblico, rendendo inevitabile parlare di apartheid nel dibattito dominante su Israele, e mettendo pressione sulle aziende, con la minaccia di boicottaggio, condanna pubblica o rivolte degli azionisti se non rivedranno le loro operazioni con Israele. Un precedente esiste: nel caso dell’apartheid in Sudafrica l’attivismo e le condanne internazionali costrinsero gradualmente le aziende a disinvestire, anche se molte resistettero per anni.
Cambierebbe anche il modo in cui sono visti i palestinesi. Oggi siamo etichettati come “apolidi” o cittadini di un ipotetico “stato di Palestina” senza il reale potere di proteggerci, privati degli strumenti diplomatici ed economici che la maggior parte delle nazioni dà per scontati. Riconoscere Israele come un regime di apartheid ci ridefinirebbe come vittime di un crimine contro l’umanità, con il diritto alla protezione, e costringerebbe a fare i conti con l’assurdità di un mondo in cui gli israeliani viaggiano liberamente mentre noi incontriamo infinite barriere per studiare, lavorare o visitare i nostri familiari all’estero.
Non sarà un rimedio magico. Israele combatterà più strenuamente del Sudafrica per mantenere l’apartheid, perché si è consolidato ancora di più, alimentato da miti religiosi e sostenuto dall’appoggio internazionale. Ma il riconoscimento ci metterebbe almeno sulla strada giusta, soppiantando decenni di finzione con la realtà. Questi anni potrebbero essere impiegati a smantellare il sistema invece che a rafforzare illusioni.
Kfar Sabt non esiste più. Secondo il progetto Palestine remembered, restano solo “cumuli di pietre e terrazzamenti” come testimonianza del fatto che un tempo lì c’era un villaggio. La popolazione è dispersa e la terra è inutilizzata, disabitata. Ma Kfar Sabt vive nella mente di mia nonna, nelle storie che racconta e che io continuerò a raccontare. Vive nelle ferite aperte di un popolo a cui è negato il ritorno. La mia madrepatria si estende da Ramallah a Kfar Sabt, dal Naqab a Lubya.
Questo non è un appello all’espulsione o alla guerra: ne abbiamo avuto abbastanza di entrambe. È un appello alla giustizia, perché solo la giustizia può portare pace e garantire un futuro diverso a tutti i popoli su questa terra, un futuro in cui le storie di mia nonna non siano solo cimeli di un mondo distrutto, ma semi di un mondo ricostruito. ◆ fdl
Alaa Salama scrive per +972 Magazine, un sito indipendente dove lavorano giornalisti israeliani e palestinesi.
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Questo articolo è uscito sul numero 1630 di Internazionale, a pagina 24. Compra questo numero | Abbonati