Nelle scene iniziali del silenzioso e meraviglioso primo lungometraggio della sceneggiatrice e regista Sarah Fried-land, una cadenza giocosa e seduttiva s’insinua nella voce di Ruth (Chalfant) mentre serve il pranzo a un uomo più giovane. “Andremo d’accordo”, lo prende in giro dopo che lui le dice di essere sposato e lei risponde che anche lei è sposata. L’uomo reagisce con disagio, perché come abbiamo già intuito – ma come Ruth, affetta da demenza, ha dimenticato – è suo figlio. I film sulla demenza tendono a presentarla come una cosa da horror. Ma Familiar touch è più generoso: per Ruth non è la fine ma un periodo di transizione mentre si sistema in una lussuosa casa di riposo che, le ricorda il figlio, ha scelto lei stessa. Il film può essere triste ma è anche provocatorio e tenero. Sganciata dal tempo, Ruth può entrare in contatto con i suoi ricordi in una forma caleidoscopica e tornare in qualche modo al suo splendore giovanile attraverso dei gesti ripetuti tante volte.
Alison Willmore, Vulture

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Questo articolo è uscito sul numero 1633 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati