Il 5 maggio il governo israeliano ha svelato la sua ultima strategia militare per la Striscia di Gaza, chiamata sinistramente “carri di Gedeone” (Merkavot Gideon). Approvata all’unanimità dal gabinetto di guerra, formalizza quello che i suoi critici definiscono come un progetto di occupazione permanente, trasferimento forzato di massa e intensificazione della violenza contro la popolazione palestinese assediata. Israele ha detto che darà tempo a Hamas fino alla fine del viaggio del presidente statunitense Donald Trump in Medio Oriente, cioè dieci giorni, dopo di che l’“operazione ‘carri di Gedeone’ comincerà con estrema forza e non si concluderà finché tutti i suoi obiettivi non saranno raggiunti”. Tuttavia, resta poco chiaro quale tipo di accordo Hamas dovrebbe accettare, considerato che il gruppo palestinese ha già acconsentito a un piano dettagliato di cessate il fuoco che prevederebbe il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani in cambio della fine della guerra.

Secondo i funzionari israeliani l’obiettivo dell’operazione è smantellare Hamas e recuperare gli ostaggi, ma si preannuncia una notevole escalation nella logica della punizione collettiva e una potenziale occupazione permanente di parte o di tutta la Striscia, che sembra la finalità della guerra di Israele fin dall’ottobre 2023.

Modello Rafah

Secondo un alto funzionario israeliano il piano prevede l’uso di una forza schiacciante per via terrestre, marittima e aerea, e il ricorso a macchinari pesanti per demolire qualsiasi infrastruttura ritenuta una minaccia dall’esercito israeliano. A differenza delle offensive precedenti le forze israeliane non si ritireranno al termine delle operazioni militari. Al contrario, rimarranno a tempo indeterminato nelle aree conquistate, trasformando intere porzioni della Striscia in una vasta zona cuscinetto o, come hanno detto alcuni funzionari in modo inquietante, una cintura di sicurezza “sanificata”.

Il funzionario ha confermato che le aree sgomberate dall’esercito seguiranno il “modello Rafah”, un eufemismo per indicare la completa distruzione dei quartieri civili e la loro integrazione nelle zone controllate da Israele. Questo linguaggio riflette un cambiamento non solo nella tattica ma anche nell’ambizione politica: la lenta annessione di gran parte della Striscia con il pretesto della sicurezza. Il ministro delle finanze Bezalel Smotrich ha lasciato poco spazio all’ambiguità: “Stiamo occupando Gaza per restarci. Basta fare dentro e fuori. Questa è una guerra per la vittoria”. Smotrich è andato oltre, affermando che gli israeliani dovrebbero smettere di aver paura della parola “occupazione” e che “un popolo che vuole vivere deve occupare la sua terra”, lasciando intendere che Gaza è considerata parte del territorio israeliano.

Un pilastro centrale del piano è il trasferimento forzato dei palestinesi dal nord di Gaza. Anche se i funzionari israeliani parlano di “trasferimento volontario”, l’intento e la portata dell’operazione equivalgono a uno sfollamento forzato e alla pulizia etnica, in violazione del diritto internazionale se condotti senza garanzie di ritorno o di sicurezza. I civili saranno spinti verso sud e radunati in zone strettamente controllate dagli israeliani.

Gli aiuti umanitari, già fortemente limitati al punto da causare condizioni di carestia, saranno usati ancora di più come un’arma. Secondo il piano le forniture di aiuti riprenderanno solo dopo l’inizio delle operazioni militari e il trasferimento della popolazione. A quel punto saranno distribuiti da agenzie di sicurezza private autorizzate dall’esercito israeliano, in zone messe in sicurezza dove i destinatari saranno solo quelli selezionati.

Retroscena sinistro

Nella cultura ebraica Gedeone rievoca il guerriero biblico che guidò pochi prescelti ad annientare i madianiti, un antico popolo arabo. L’uso del termine dà all’operazione carri di Gedeone l’aura di una vendetta divina e di una conquista etnica. È un nome carico di violenza storica, oggi riciclato per presentare un moderno attacco militare come una legittima crociata. Il termine merkavot (carri) aggiunge a questo simbolismo un ulteriore livello di minaccia. Evoca sia i mitici strumenti di guerra sia i carri armati israeliani Merkava impiegati per distruggere case e vite umane a Gaza e in Cisgiordania. La fusione tra mito teologico e guerra meccanizzata caratterizza una campagna condotta con il linguaggio della guerra santa e con gli strumenti della distruzione di massa. C’è un retroscena ancora più sinistro. Secondo il giornale online israeliano Ynet, durante la discussione del gabinetto sul nome da dare all’operazione un ministro ha detto scherzosamente che si sarebbe dovuta chiamare “Che io muoia con tutti i filistei”, un inquietante riferimento agli antichi abitanti di Gaza, dai quali deriva il nome dei palestinesi.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu avrebbe liquidato la proposta con gelida chiarezza: “No. Noi non vogliamo morire con loro. Vogliamo che muoiano da soli”. Questo scambio, in parte battibecco “scherzoso” in parte rivelatore di un intento genocida, mette a nudo un modo di pensare nel quale la violenza di stato è ammantata di scritture sacre e sarcasmo, e la cancellazione di un popolo non è solo una linea politica, ma anche una battuta finale.

Dalla Striscia di Gaza
Gli attivisti colpiti dai droni

Il 2 maggio 2025 gli attivisti della Freedom flotilla coalition (Ffc) hanno denunciato che una delle loro navi, carica di aiuti umanitari per la Striscia di Gaza, è stata attaccata da droni israeliani al largo di Malta, in acque internazionali. Non ci sono stati feriti tra gli attivisti provenienti da ventuno paesi e che stavano partecipando a quella che hanno definito una “missione per contrastare il blocco illegale e mortale imposto da Israele alla Striscia di Gaza”.

Dal 2 marzo Israele blocca l’ingresso degli aiuti nella Striscia e il 2 maggio il Comitato internazionale della croce rossa (Cicr) ha avvertito che “le operazioni umanitarie a Gaza sono sull’orlo del collasso”. Quattro giorni dopo l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati palestinesi (Unrwa) ha fatto sapere che 66mila bambini di Gaza soffrono di malnutrizione grave, che centinaia di migliaia mangiano un pasto ogni due o tre giorni e che da ottobre sono stati registrati 57 decessi legati alla fame.

Un commento dello studioso Dalal Yassine sul sito indipendente The Electronic Intifada denuncia che Gaza “rappresenta i limiti del diritto internazionale umanitario e della sua legittimità”. “Negli ultimi 19 mesi le agenzie dell’Onu e le organizzazioni per la difesa dei diritti umani hanno pubblicato molti rapporti che mettono in guardia sul peggioramento della crisi umanitaria nella Striscia di Gaza. I rapporti però sono stati in gran parte ignorati dalla comunità internazionale, mentre Israele continua a bombardare e a impedire che l’assistenza essenziale raggiunga la popolazione palestinese sotto assedio”.

Il sito libanese Daraj documenta un altro aspetto tragico della catastrofe in corso: molte famiglie non riescono a recuperare i corpi dei loro cari uccisi dai bombardamenti, perché anche le squadre di soccorso finiscono sotto il fuoco degli israeliani. Così alcuni giovani offrono servizi di recupero dei corpi dalle zone più pericolose, mettendo a rischio la vita in cambio di compensi elevati. ◆


In mancanza di qualche forma di accordo di pace, l’operazione carri di Gedeone rappresenta una svolta fondamentale nell’approccio di Israele alla sua devastante guerra a Gaza: dall’assedio alla conquista, dall’invasione temporanea all’occupazione. Le organizzazioni per i diritti umani, gli osservatori internazionali e i giuristi avvertono che questa mossa delinea un quadro in cui la strategia militare diventa una copertura per la pulizia etnica e l’occupazione.

Hamas ha condannato l’operazione, accusando Israele di usare gli aiuti umanitari per mascherare la conquista di territori e lo sfollamento forzato.

Intanto, le famiglie degli ostaggi – che in teoria sarebbero la ragion d’essere dell’operazione – hanno reagito con sdegno. Molti considerano il piano un tradimento, che sacrifica i loro cari per conquistare territori e vantaggi politici. La loro rabbia è stata inasprita da un recente commento di Smotrich, secondo cui salvare gli ostaggi “non è l’obiettivo più importante”. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1613 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati