Poverissimo, senza sbocchi sul mare e schiacciato tra due arroganti vicini, il Nepal avrebbe un gran bisogno di stabilità politica. Ma dal dicembre 2020, quando il primo ministro Khadga Prasad Sharma Oli ha sciolto il parlamento, regna il caos. La decisione di Oli va inquadrata nel contesto della faida con il suo acerrimo nemico all’interno del Partito comunista del Nepal (Ncp) l’ex guerrigliero Pushpa Kamal Dahal, noto come Prachanda (il feroce). Nel 2018 il Partito comunista del Nepal (marxista-leninista unificato) di Oli e il Partito comunista del Nepal (centro maoista) di Prachanda si erano fusi nell’Ncp. Pare che Prachanda si aspettasse di fare un turno al governo, ma Oli non era disposto a cedergli il posto.
Così i sostenitori di Prachanda hanno chiesto a gran voce una mozione di sfiducia, che con ogni probabilità Oli avrebbe perso. Lo scioglimento del parlamento serviva a evitarla. Ma a febbraio la corte suprema ha stabilito l’incostituzionalità della decisione e ha ordinato il reinsediamento del parlamento, indebolendo ulteriormente la posizione di Oli. Poi, ai primi di marzo, la corte ha dichiarato non valido il nome dell’Ncp (perché già registrato da un altro partito). Di conseguenza il partito si è di nuovo scisso in due.
Le differenze non sono ideologiche. Prachanda ha da tempo abbandonato la rivoluzione maoista, accettando un governo rappresentativo dopo l’abolizione della monarchia nel 2008. Nel 2015 ha sostenuto una nuova costituzione, che prometteva di trasferire il potere alle province. In passato Oli si ispirava ai rivoluzionari di sinistra indiani e ha passato quattordici anni in carcere per l’assassinio di alcuni proprietari terrieri. Oggi invece incarna il conservatorismo dei grandi latifondisti e dell’élite di Kathmandu. Ha impedito buona parte del decentramento previsto dalla costituzione, soprattutto nella regione del Terai. Ha sposato una sorta di nazionalismo indù, dichiarando che il dio Rama è nato in Nepal e non in India. E dall’altra parte l’amicizia di Oli con la Cina è una reazione di comodo alle passate intromissioni del governo indiano più che una reale sintonia con il Partito comunista cinese (Pcc).
Futuro incerto
È difficile dire cosa accadrà adesso. Oli spera nel sostegno del secondo partito di opposizione, il Janata samajbadi party Nepal, che potrebbe collaborare in cambio della liberazione di uno dei suoi parlamentari, in carcere per la morte di sette poliziotti durante le manifestazioni nel Terai nel 2015. Prachanda spera di convincere a passare dalla sua parte vari deputati marxisti-leninisti, che però insistono perché il suo partito abbandoni la definizione di maoista. Il principale partito d’opposizione, il Congress nepalese, per ora osserva. Il suo leader, Sher Bahadur Deuba, potrebbe allearsi con Oli o con Prachanda, a patto di diventare primo ministro.
L’incertezza destabilizza le due potenze vicine. Per una volta però l’India non sta interferendo. Lo sottolinea Amish Raj Mulmi, autore di All roads lead north, una storia dei rapporti del Nepal con Pechino e New Delhi. In quanto potenza storicamente egemone, e principale partner commerciale del Nepal, l’India era solita intromettersi nelle vicende del vicino. Nel 2015 il primo ministro Narendra Modi sostenne gli abitanti del Terai che protestavano. La mossa ha spinto ulteriormente il Nepal tra le braccia della Cina, ma New Dehli ha imparato la lezione: di recente ha spedito il suo capo di stato maggiore in visita di riconciliazione a Kathmandu.
Nel frattempo le promesse cinesi di grandi investimenti in infrastrutture fanno temere un’eccessiva dipendenza da Pechino. La Cina ha chiesto al Nepal di imporre dei limiti agli esuli tibetani che vivono nel paese, e ha deportato segretamente decine di cittadini cinesi. Soprattutto, i funzionari di Pechino si sono insinuati tra le fazioni in lotta nell’Ncp, nonostante la Cina promuova la dottrina della non interferenza. Mulmi è invece convinto che si tratti di goffaggine: la Cina ha “messo tutte le sue uova” nel paniere dell’Ncp e ora sta cercando di evitare la frittata. Muovendosi poco, invece, l’India sta gestendo meglio la crisi. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1402 di Internazionale, a pagina 34. Compra questo numero | Abbonati