Nove vaccini contro il covid-19 sono già stati approvati in uno o più paesi, e molti altri sono in fase di preparazione. Ma un conto è progettare e testare un vaccino, un altro è produrlo in quantità tali da garantire i miliardi di dosi necessarie a vaccinare l’intera popolazione mondiale, possibilmente a un ritmo tale da precedere eventuali mutazioni del virus.

In linea di massima ci sono due modi per produrre vaccini antivirali. Il primo, che ha una lunga storia, prevede la coltura, in apparecchi chiamati bioreattori, di cellule che fungono da ospiti dei virus. Le cellule coltivate possono essere di vari tipi – di insetti, reni umani, reni di scimmia, ovaie di criceto – come anche i vaccini che si ottengono. Questi vaccini possono essere versioni attenuate o inattivate del virus da cui bisogna proteggersi, virus vivi di un tipo diverso e meno pericoloso che hanno un paio di geni estratti dal virus stesso, o anche solo singole proteine virali. L’obiettivo è introdurre nell’organismo qualcosa che il sistema immunitario possa imparare a riconoscere e attaccare se dovesse presentarsi il virus.

Il metodo alternativo, sviluppato di recente per i vaccini a mRna di Moderna e Pfizer, richiede la coltura di cellule solo nella fase iniziale. L’mRna è la sostanza che trasmette ai ribosomi (le fabbriche molecolari) le istruzioni per produrre una proteina dal dna di una cellula. Nel caso del covid-19 le istruzioni servono a produrre la proteina spike, che si trova sulla superficie del virus sars-cov-2 responsabile della malattia. Con il vaccino,
l’mRna induce alcune cellule dell’organismo a produrre la spike, che il sistema immunitario impara a riconoscere. Per questi vaccini, quindi, servono grandi quantità di mRna.

Pur partendo dalle cellule, che sono batteriche e non animali, il procedimento non finisce con loro. I batteri usati, di solito l’Escherichia coli, contengono una versione di dna della parte di genoma del sars-cov-2 che codifica la proteina spike. Dopo essersi moltiplicati per alcuni giorni, i batteri vengono aperti, il loro dna viene filtrato e le versioni del gene della spike vengono estratte sotto forma di filamento stampo di dna. Una volta purificato, lo stampo è unito a enzimi pertinenti e a molecole chiamate nucleotidi, le “lettere” chimiche che compongono l’rna. Gli enzimi usano poi gli stampi per copiare in grandi quantità l’mRna appropriato. Quest’ultimo, estratto e incapsulato in microsfere di grasso, forma il vaccino.

Vantaggi e svantaggi

Entrambe le tecniche hanno dei pro e dei contro. La prima ha il vantaggio di essere ormai consolidata, ma mantenere in buona salute le colture cellulari animali non è facile e le aziende sono spesso in affanno. Per produrre un vaccino velocemente e in grandi quantità, quindi, non è il metodo più indicato.

Anche la seconda tecnica, però, presenta dei problemi. Il principale è come proteggere le molecole di mRna dall’ambiente e dall’organismo del ricevente, che le attacca appena si dirigono verso i ribosomi. Per proteggerle dall’ambiente basta avere refrigeratori che garantiscano la cosiddetta catena del freddo. Per proteggerle dall’organismo, invece, servono le microsfere di grasso. L’incognita è la capacità di produrre abbastanza molecole da garantire una fornitura ampia e continua dei vaccini.

Altri ostacoli sono la carenza d’impianti all’altezza degli standard richiesti e la scarsità di materie prime come i nucleotidi. Anche il trasporto e la distribuzione sono complicati, perché i vaccini vanno stoccati in speciali fiale di vetro non reattivo. Alcuni, come quello della Pfizer, vanno conservati a temperature estremamente basse, anche se l’azienda sta attualmente testando dosi che rimangono stabili per tre mesi a 4°C.

Quando tutti questi problemi saranno risolti, le aziende dovranno affrontare una nuova sfida: rispondere rapidamente alle nuove varianti del virus. Qui la tecnica a mRna presenta grandi vantaggi, perché teoricamente basta ritoccare il meccanismo di produzione aggiungendo il filamento stampo di dna che codifica la proteina spike della variante. ◆ sdf

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1396 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati