Improvvisamente nel porto di Dover si ferma tutto. Un mercoledì di settembre decine di camion da 40 tonnellate sono incolonnate sulle quattro corsie dello svincolo autostradale. Miasmi di diesel si spandono su tutta la zona portuale, alcuni autisti premono nervosamente il piede sull’acceleratore. Un incidente ha coinvolto un tir rosso e uno grigio. Niente di che, un paio di ammaccature e qualche graffio ai rimorchi, ma è sufficiente perché la coda si allunghi fino ai traghetti che già da un po’ avrebbero dovuto imbarcare altri camion per il viaggio di ritorno attraverso la Manica. Tutti subiranno dei ritardi quel giorno, tanto i traghetti quanto i camionisti. Ma questo piccolo inconveniente è solo un assaggio del mostruoso ingorgo che tutti a Dover prevedono il primo gennaio, giorno in cui il Regno Unito, dopo quasi un anno di transizione, lascerà definitivamente il mercato comune europeo.
Sui dettagli dell’uscita si negozia ancora freneticamente a Londra e a Bruxelles. Si parla di dogane e certificati, di qualifiche professionali e norme ambientali, di sovvenzioni per le nuove aziende e diritti di pesca nelle acque britanniche. Sembrava che le parti potessero raggiungere almeno un accordo di base per evitare dazi doganali e quote di’importazione. Così forse si potrebbero limitare parecchio i danni, soprattutto per il Regno Unito. Ma è una magra consolazione: la scelta è tra una cattiva e una pessima separazione.
I danni sono già enormi. Dal 2016, quando i britannici hanno votato a favore dell’uscita dall’Unione europea, il commercio è crollato. Allora il Regno Unito era il terzo mercato più importante per le esportazioni tedesche, ora è sceso al quinto posto. Nei primi sette mesi del 2020 le esportazioni britanniche verso il continente sono diminuite del 17 per cento circa rispetto all’anno precedente, più di quanto non abbiano fatto le esportazioni dell’Unione europea in Giappone o negli Stati Uniti. Gli economisti parlano di “distacco”.
Solo i britannici che vedono nella Brexit un atto simbolico di sovranità nazionale potranno pensare di aver vinto. Dal punto di vista economico invece ci saranno solo perdenti: i consumatori, che soprattutto nel Regno Unito dovranno fare i conti con l’aumento dei prezzi e un’offerta ridotta; le aziende, alle quali il nuovo regime commerciale imporrà più burocrazia e costi più elevati; i lavoratori che perderanno il posto. E i governi da una parte e dall’altra della Manica, a cui i conti non tornano.
Dopo essersi ripresi dallo shock del referendum del 2016, i paesi dell’Unione speravano ancora di poter legare a sé il Regno Unito nel modo più stretto possibile. Quattro anni dopo è chiaro che non sarà così. In futuro il paese sarà più lontano dall’Unione di quanto non lo siano la Norvegia o la Turchia. L’Europa perderà quasi un sesto del suo potere economico e dovrà fare i conti con un nuovo concorrente, il cui principale obiettivo sarà sottrarre quote di mercato agli europei.
Gli europei speravano che dopo la Brexit migliaia di banchieri londinesi si sarebbero trasferiti nel continente, ma non è ancora successo
D’altro canto nemmeno il piano del primo ministro britannico Boris Johnson, che sperava di concludere redditizi accordi commerciali dopo l’uscita dall’Unione, ha funzionato. Il suo progetto di trasformare il Regno Unito in una “Singapore sul Tamigi”, con tasse più basse e meno burocrazia, non si è ancora materializzato. L’era “gloriosa” della Brexit potrebbe invece cominciare con un caos a livello di amministrazione, approvvigionamenti e trasporti, che anche nel linguaggio sobrio dei funzionari britannici sembra terribile. Si parla di porti bloccati, carenza di medicinali e licenziamenti di massa. E il fatto che i cittadini non sappiano quasi nulla dei piani concreti del loro governo non aiuta.
La paura e la sfiducia sono tangibili, come a Sevington, nel sud dell’Inghilterra. Il cimitero di questo villaggio del Kent si affaccia su una rotatoria trafficata, subito dietro la chiesa. Non lontana da lì c’è una delle arterie stradali più importanti del paese, l’autostrada M20, che collega Londra con il porto di Dover. A luglio le ruspe sono arrivate all’improvviso in un terreno di undici ettari a sud della chiesa. Hanno spianato un prato coperto di papaveri, rovi e fiori di campo. A causa della Brexit, “ora sarà un’enorme distesa di asfalto per migliaia di camion”, dice la rappresentante dei Verdi Mandy Rossi. “Mi viene da piangere”. Le autorità hanno spiegato che qui si svolgeranno i controlli doganali dei camion. Una struttura doganale a 34 chilometri dal porto di Dover? “Sarebbe un invito a nozze per i contrabbandieri”, dice Rossi. Secondo lei l’area diventerà invece un parcheggio per almeno 1.500 camion, visto che secondo le previsioni del governo britannico la Brexit provocherà ingorghi chilometrici all’imbarco dei traghetti.
All’inizio di settembre Johnson aveva promesso ai suoi connazionali “un buon risultato”. Sfortunatamente, però, poco prima era trapelato un documento riservato. Lo “scenario peggiore ma realistico” che delineava sembrava il copione di una serie apocalittica della Bbc: interruzioni di corrente, carenza di carburante, difficoltà nell’approvvigionamento di generi alimentari nelle Isole del Canale e camion in coda per più di cento chilometri nell’entroterra. In caso di mancato accordo, il governo avrebbe mandato l’esercito nelle strade per prevenire disordini e la marina militare per impedire ai pescatori francesi di tentare un blocco navale. Dato che i farmaci potrebbero rimanere fermi al confine, è possibile che si diffondano malattie tra il bestiame. Un comune su venti potrebbe andare in bancarotta.
Tempesta perfetta
Il distacco definitivo dal mercato comune europeo avverrà alla fine di dicembre, in pieno inverno e probabilmente al culmine di una seconda ondata di covid-19. La prima ha già colpito duramente il Regno Unito. Tra i paesi europei è quello che ha registrato più vittime e il più netto calo del pil nel secondo trimestre del 2020. Se a novembre il generoso programma di aiuti del governo non sarà prorogato, molti lavoratori rischieranno il licenziamento. Secondo Jonathan Portes, economista del King’s college di Londra, la prospettiva di un’uscita senza accordo nel bel mezzo di una pandemia sarebbe “la tempesta perfetta”.
Il punto debole del Regno Unito, che è un paese insulare, sono gli scali e i porti commerciali sulla Manica. Anche se le due parti dovessero trovare un accordo, le merci dovrebbero essere registrate e poi controllate a Dover. Il motivo lo ha spiegato tempo fa il negoziatore europeo Michel Barnier: non si può rischiare che merci provenienti da tutto il mondo siano assemblate nel Regno Unito “e poi fatte entrare nel mercato comune europeo come merci britanniche”. Gli esperti prevedono che i controlli prolungheranno i tempi di consegna fino a due giorni, e questo colpirebbe soprattutto l’industria alimentare: pesce, crostacei e verdure potrebbero rovinarsi nei camion. Anche alcuni medicinali hanno una scadenza molto breve e non possono essere stoccati.
Gli spedizionieri britannici non hanno dubbi su chi sia il responsabile di questo caos. “Il governo è troppo in ritardo. Come possono pretendere che ci organizziamo se non ci danno nessuna informazione chiara?”, chiede Richard Burnett, direttore esecutivo dell’associazione degli spedizionieri britannici Rha. Mancano solo tre mesi e resta ancora molto da chiarire: dove saranno allestiti i posti di blocco per i camion? Quali programmi informatici dovrebbero installare gli spedizionieri, dal momento che il software del governo è ancora in fase di sperimentazione? E chi dovrebbe compilare i moduli di dichiarazione doganale per centinaia di milioni di consegne? Burnett calcola che attualmente cinquemila funzionari devono sbrigare cinquanta milioni di pratiche. Dopo la Brexit se ne aggiungerebbero circa 220 milioni. Per questo servirebbero decine di migliaia di dipendenti in più. Molti spedizionieri europei potrebbero semplicemente cancellare il Regno Unito dalle loro rotte, teme Burnett: “Nessuno vuole essere coinvolto in questo caos”.
La casa automobilistica Honda ha calcolato i costi aggiuntivi. Un ritardo di appena 15 minuti a spedizione comporterebbe una perdita di 850mila sterline all’anno (940mila euro). Diverse aziende britanniche del settore automobilistico o chimico hanno già elaborato piani di emergenza per trasferire una parte della loro produzione sul continente, se necessario. Decine di migliaia di posti di lavoro sono a rischio, proprio in quelle regioni industriali dell’Inghilterra settentrionale e centrale a cui il Partito conservatore deve la sua trionfale vittoria alle elezioni di dicembre del 2019.
Champagne californiano
I sostenitori della Brexit continuano a raccontare la favola secondo cui le perdite negli scambi con l’Unione europea potranno essere compensate dagli accordi con altre regioni del mondo. Shanker Singham, esperto di diritto commerciale e consulente del governo, è entusiasta delle opportunità offerte dal commercio con “l’Asia, l’Indo-Pacifico e il Medio Oriente”. Ma finora la strategia globale di Johnson non ha avuto molto successo: gli accordi commerciali stipulati nei mesi scorsi con paesi come Giappone e Corea garantiscono al Regno Unito condizioni molto simili a quelle di cui godeva all’interno dell’Unione, mentre le trattative con gli Stati Uniti, che secondo il presidente Donald Trump dovrebbero portare a risultati “grandiosi”, sono in stallo da mesi. Secondo Clemens Fuest, presidente dell’istituto per la ricerca economica Ifo di Monaco, quelle dei sostenitori della Brexit sono solo “illusioni”.
Gli europei guardano al disastro che incombe con un misto di incredulità e compiacimento. Ecco, pensano in molti a Bruxelles, è così che finiscono quelli che osano lasciare il club del commercio europeo. Ma c’è poco da sghignazzare. Non solo perché l’Unione è in parte responsabile della Brexit, ma anche perché l’uscita del Regno Unito avrà gravi conseguenze sulla crescita europea. Per esempio, solo alle aziende tedesche le pratiche doganali costano già trecento milioni di euro all’anno. Inoltre ci saranno costi assurdi per nuovi certificati, marchi o documenti di trasporto.
Le cose potrebbero peggiorare di molto se l’Unione e il Regno Unito s’imporranno dazi a vicenda. “Molti clienti ci hanno già detto: ‘Quando i dazi entreranno in vigore, non consegneremo più nel Regno Unito, non ne varrà la pena’”, spiega Andy McFarnell, responsabile per la Brexit della ditta di spedizioni belga Sitra, che trasporta derrate alimentari nel Regno Unito con una flotta di cinquecento camion. Il prezzo della carne di pollo, per esempio, potrebbe aumentare addirittura di un euro al chilo.
Le aziende alimentari europee inoltre temono una disputa sulle cosiddette certificazioni di provenienza. In Europa esistono più di tremila prodotti certificati. In questo modo lo champagne francese è tutelato dalle imitazioni a buon mercato, come avviene per il gorgonzola italiano o la salsiccia di Norimberga. Nell’accordo di uscita, il Regno Unito aveva garantito che questi prodotti avrebbero avuto “almeno lo stesso” livello di tutela di cui godono nell’Unione. Ma sembra che i negoziatori di Johnson non ne vogliano più sapere. Hanno intenzione di “configurare diversamente” le regole, si legge in una nota interna sui negoziati scritta all’inizio di settembre dal ministero degli esteri tedesco. È probabile quindi che presto nei supermercati britannici comparirà lo champagne californiano. Ma cosa succederà al whisky scozzese, al formaggio cheddar e ai circa ottanta prodotti britannici che nell’Unione sono protetti dalle imitazioni? Bruxelles ostacolerà la loro importazione? Il rischio che entrambe le parti finiscano per rimetterci è alto.
Ed è lo stesso in molti altri settori. L’economista tedesco Oliver Holtemöller ha calcolato che in caso di mancato accordo solo in Germania sarebbero a rischio 180mila posti di lavoro, soprattutto nelle regioni che ospitano le grandi case automobilistiche. Gli europei speravano che migliaia di banchieri londinesi si sarebbero trasferiti nel continente, ma non è ancora successo. Dopo il referendum il lobbista di Francoforte Hubertus Väth aveva calcolato che fino a diecimila amministratori finanziari si sarebbero trasferiti dal Tamigi al Meno. In realtà sono stati poco più di 2.500, soprattutto tedeschi che dopo qualche anno all’estero sono tornati in patria. E la cifra non aumenterà di molto, anche perché nel frattempo l’Unione europea si è resa conto che le attività finanziarie non funzionano senza i britannici.
Alla fine di settembre l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (Esma) ha stabilito che le camere di compensazione britanniche potranno continuare a operare in Europa almeno fino alla metà del 2022. “Un chiaro successo per la City”, afferma Vät. Le banche e i fondi non possono portare a termine le transazioni in titoli e derivati senza le camere di compensazione, che intervengono quando un accordo salta. Per evitare il caos sui mercati finanziari devono accumulare enormi riserve di denaro, in modo da poter far fronte alle emergenze. Ma durante una crisi finanziaria anche le camere di compensazione possono andare in difficoltà. Se questo succede devono essere sostenute dai paesi in cui hanno sede. Nessun governo europeo però ha voglia di intervenire in caso di crisi, quindi sono ben contenti che continuino a occuparsene i britannici.
Il nodo della pesca
Speranze infrante e prospettive fosche: poco prima della data decisiva, l’umore da entrambe le parti è cupo. Più l’Unione europea e il Regno Unito si allontanano, più il danno economico è grande, e questo lo sanno entrambe le parti. Rimane una sola domanda: si arriverà almeno a un accordo limitato? A Londra, Bruxelles e Berlino ultimamente si sentono toni ottimistici. Ma i diplomatici che conducono le trattative sono meno fiduciosi. Nemmeno la telefonata tra Johnson e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen il 10 ottobre ha aperto uno spiraglio di luce. Le parti sono ancora lontane su due questioni cruciali: le regole sulla concorrenza, per esempio sugli aiuti di stato e le norme ambientali, e i diritti di pesca nel mare del Nord. Anche se a livello economico è un settore quasi irrilevante, la disputa sulle zone di pesca britanniche è diventata uno dei maggiori ostacoli a un accordo commerciale. La questione ha un valore simbolico, se non altro perché Johnson per una volta ha il coltello dalla parte del manico. Il Regno Unito vuole limitare l’accesso dei pescatori europei alle sue acque, e per ognuna delle quasi cento specie ittiche commestibili vuole negoziare ogni anno le quote massime di pesca. L’Unione vuole che l’accesso resti libero e al massimo è disposta ad accettare delle quote a lungo termine. Se non si troverà un compromesso soddisfacente l’Europa minaccia di non firmare nessun accordo.
Anche su altri fronti l’Unione si mostra ostinata. Dato che con la recente legge sul mercato interno il governo britannico ha violato degli importanti aspetti dell’accordo sull’uscita, stabiliti da tempo, Bruxelles insiste per creare un meccanismo vincolante per la risoluzione di conflitti futuri. Inoltre vuole ottenere che il Regno Unito continui a rispettare gli standard europei sull’ambiente, i diritti e il mercato del lavoro. Londra sembra disposta a continuare a seguire le regole già in vigore, ma non c’è accordo su come si debba procedere in caso di nuove normative europee. È soprattutto la Francia a considerare essenziale che il Regno Unito si adegui, mentre Johnson è fortemente contrario. Un possibile compromesso prevede che gli europei facciano concessioni sulle regole per la concorrenza e che i britannici accettino una procedura di risoluzione delle controversie.
Il tempo stringe, ancora una volta. Bruxelles ha dichiarato che entro la fine di ottobre dovranno essere stabilite le linee fondamentali dell’accordo, in modo che possa essere ratificato prima di gennaio. Il danno causato dall’uscita del Regno Unito non sarebbe azzerato, ma almeno ridotto. Come dice l’economista Felbermayr: “Un accordo è meglio che nessun accordo”.◆ mp
Gli autori di questo articolo sono: Tim Bartz , Claus Hecking , Nils Klawitter, Peter Müller, Michael Sauga e Jörg Schindler.
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Questo articolo è uscito sul numero 1380 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati