“Eravamo a cavallo a quattromila metri sulle montagne dell’Hindu Kush, in Afghanistan. Avevo messo via la macchina fotografica perché faceva troppo freddo e non riuscivo a tenermi bene in equilibrio”. Il fotografo Lucian Perkins comincia così il racconto di quando, nell’ottobre 2001, fu mandato dal Washington Post a seguire l’invasione statunitense dell’Afghanistan dopo gli attacchi alle torri gemelle e al Pentagono.

Era la prima volta che Perkins lavorava con una macchina fotografica digitale: “Era l’unico modo per mandare le foto al giornale, con il computer e un telefono satellitare”. Ma aveva portato con sé anche un’analogica: “L’incarico diventava sempre più rischioso, non potevo sprecare nemmeno una foto. Avevo scattato già due rullini, e sarebbero stati gli ultimi”.

Mesi dopo, quando tornò a Washington e andò a svilupparli, scoprì che uno era rovinato: per sbaglio, al momento di cambiare rullino, aveva tirato fuori dalla tasca uno di quelli che aveva già usato e l’aveva rimesso nella macchina fotografica. Così scattando aveva creato una serie di doppie esposizioni. “Lì per lì misi via il rullino e lo dimenticai”, racconta.

Un combattente dell’Alleanza del nord e gli abitanti di un villaggio sentono il rumore dei bombardamenti statunitensi contro i taliban al confine con il Tagikistan

Quasi vent’anni dopo, durante il lockdown per il covid-19, Perkins si è imbattuto in quei negativi. “All’epoca mi era sembrato solo un errore. Oggi, a causa dei pericoli che la pandemia ha portato da ben oltre i ‘nostri’ confini, ho visto quelle immagini con una luce diversa: il popolo afgano era davanti a una guerra pericolosa che proveniva da molto lontano, ed era guidato da leader che non conosceva”.

L’elemento casuale della doppia esposizione ha ricordato a Perkins come in quel viaggio ogni incontro fosse un rischio: “Prendevamo delle precauzioni, ma non sapevamo mai chi avremmo trovato dietro l’angolo o se potevamo fidarci delle nostre guide. Il popolo afgano affronta paure simili dal 2001, in una guerra con mezzo milione di morti. Quando è cominciata si pensava che sarebbe durata un anno. Ora tutti speriamo che anche la pandemia di covid-19 duri poco, ma in realtà non sappiamo cosa ci aspetta dietro l’angolo e dove ci condurranno le nostre guide”. ◆

valle del Panjshir. “Avevo un amico che negli anni ottanta aveva combattuto in Afghanistan con l’esercito sovietico”, racconta il fotografo. “Mi disse che gli Stati Uniti erano pazzi ad attraversare regioni montuose come la valle del Panjshir, perché gli afgani in quelle zone erano riusciti a disorientare gli invasori già dai tempi di Alessandro Magno”.
passo di Anjuman, Hindu Kush. “A causa di una tempesta di neve eravamo rimasti bloccati in una capanna di fango con un gruppo di afgani”, racconta Perkins;
nel campo profughi di Nowabad: “I rifugiati ci dissero che non ricevevano cibo da un mese”;
alcune donne del campo profughi vanno al mercato in cerca di qualcosa da mangiare.

**Lucian Perkins **è un fotografo statunitense nato nel 1953.

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Questo articolo è uscito sul numero 1378 di Internazionale, a pagina 66. Compra questo numero | Abbonati