Una donna fissa l’obiettivo con sguardo sospettoso. Ha l’aria severa; gli occhiali dalla forma allungata e l’acconciatura ci riportano agli anni sessanta. Intorno una massa di passanti, tutti uomini, molti hanno il cappello. Siamo a New York, in un anno indistinto tra il 1960 e il 1965, quando Stephen Shore scattava le sue prime fotografie. Sono istantanee in bianco e nero che mostrano situazioni varie: uomini che parlano per le strade della grande mela; una giovane coppia su una panchina; bambini alle prese con le prime letture sulle scale di un edificio. È una raccolta vorticosa di scene di strada, vediamo da vicino piedi e gambe in movimento; operai al lavoro e signore impellicciate.

Questi scatti sono raccolti ora nel libro Early work, pubblicato dalla casa editrice britannica Mack.

Considerato un pioniere della fotografia a colori, che comincerà a realizzare a partire dai primi anni settanta, Shore ha fatto queste foto fra i 13 e i 18 anni, e non stupisce la precocità se si pensa a quant’è stata turbinosa la sua impresa nel mondo della fotografia.

Nasce a New York nel 1947 e si appassiona molto presto alla chimica, tanto che un suo zio – evidentemente lungimirante – decide di regalargli un kit Kodak per camera oscura per il suo sesto compleanno, con cui Shore sviluppa e a stampa le pellicole della sua famiglia. A nove anni aveva già una macchina fotografica 35mm e a dieci anni riceve un altro regalo fondamentale, una copia di American photographs di Walker Evans, il suo primo libro di fotografia, un ritratto dell’America degli anni trenta che per lui è una specie di folgorazione. Infatti negli anni a venire continuerà a citare Evans come fonte di ispirazione, riferendosi soprattutto alla sua idea di “immagine trascendente”, una trascendenza che parte proprio dal dato sensibile, quindi dalla capacità della fotografia di trasmettere una percezione del mondo e di attivare l’inconscio, di generare emozioni.

La necessità di sperimentare

Shore comincia da subito a lavorare con le immagini, a masticarle, a interrogarsi sulla percezione, sul senso stesso del guardare: una riflessione che accompagnerà tutta la sua produzione. È giovanissimo quando si muove per le strade di New York e riprende quello che ha intorno: la gente, i taxi, le vetrine. A 14 anni contatta Edward Steichen, l’allora direttore del dipartimento di fotografia del Moma di New York, e gli chiede un parere sulle sue foto. Steichen accetta e ne compra tre.

Nel 1964, ancora adolescente, incontra Andy Warhol e inizia a frequentare la sua factory, a documentarla. È lì che comprende la centralità del processo artistico, di come ragionare intorno a un’idea per svilupparla in modo convincente, e anche la necessità di sperimentare, di andare sempre oltre, di non fermarsi.

Nei primi anni settanta decide di andare alla scoperta degli Stati Uniti, gettando le basi di quelle che saranno due opere centrali nella sua produzione e che diventeranno poi dei libri, ovvero American surfaces, realizzata tra il 1972 e il 1973 e, più avanti, Uncommon places, che svilupperà tra il 1973 e il 1981. Lavora a una rappresentazione visiva dell’immaginario statunitense che rivela il paese ai suoi stessi abitanti. Un po’ come aveva fatto nel 1958 Robert Frank con The Americans, solo che Shore usa il colore: un tentativo di mettere in discussione le convenzioni visive secondo cui la fotografia artistica è unicamente in bianco e nero.

Early work ci riporta alle origini della sua produzione, facendoci scoprire i primi lavori. È un viaggio nel tempo, una sequenza che verrebbe voglia di continuare a guardare e che ha acquistato anche un valore storico, come sempre accade quando la fotografia ci riporta a un tempo che non c’è più. Nella parte finale del volume ci sono anche alcune immagini della factory e di Andy Warhol.

Shore è molto vicino ai soggetti che fotografa, sembra di poter partecipare a una conversazione. Sono scene che annunciano il suo interesse per la gente e il quotidiano, per la fotografia vernacolare, e che hanno già l’immediatezza dei lavori successivi.

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