Disegnato dall’ingegnere Gioacchino Ersoch e costruito tra il 1888 e il 1891, il Mattatoio di Roma occupa una superficie di più di centomila metri quadrati nel quartiere Testaccio. Fino al 1975 è stato il luogo in cui erano macellati gli animali per l’industria alimentare. Dagli anni novanta è stato convertito in un polo culturale con spazi espositivi e ora ospita Animalism, una grande mostra di Roger Ballen che mette al centro la sua riflessione sul rapporto tra esseri umani e animali.
“Il mattatoio è stato costruito per contenere la violenza che sta alla base della civiltà, per regolare il rituale della morte. Il mio lavoro ha sempre sondato queste tensioni: il rapporto conflittuale tra uomo e animale, l’istinto e la ragione, il primitivo e il civilizzato”, spiega il fotografo. “Ma non è solo il rispecchiamento tra soggetto e tema a rendere più intenso questo incontro. Per me il mattatoio è più di un luogo fisico: è un bacino psichico di forze archetipiche – morte, controllo, sacrificio. Non si tratta solo di fatti storici, ma di impronte psicologiche incise nello spazio. I coltelli non ci sono più, ma le pareti conservano energie che dialogano con la visione del mio lavoro. In altre parole, la memoria collettiva del mattatoio, i suoi fantasmi, anima le immagini. E le immagini, a loro volta, risvegliano nuove visioni sopite nell’architettura”.
Nato nel 1950 a New York, negli Stati Uniti, Ballen vive in Sudafrica da più di quarant’anni. Nel corso della sua lunga carriera, cominciata con un approccio documentaristico e diventata poi una commistione di performance, messinscena e teatro dell’assurdo, ha creato immagini in bianco e nero enigmatiche e inquietanti per provare a dare forma all’area imperscrutabile dell’inconscio collettivo. Gli studi in psicologia all’università di Berkeley hanno contribuito a delineare il suo campo d’indagine, accendendo in lui una fascinazione per il movimento antipsichiatrico di R.D. Laing.
In questa retrospettiva, curata da Alessandro Dandini de Sylva insieme a Marguerite Rossouw, storica collaboratrice del fotografo, l’allestimento è pensato per instaurare un dialogo naturale, quasi inevitabile, con lo scheletro del mattatoio, quello che resta della sua vecchia struttura, che diventa la chiave per leggere e interpretare i simboli ricorrenti dell’opera dell’artista. Per dirla con Dandini de Sylva, si parte dal diaframma, una camera luminosa e sempre aperta del padiglione 9a, in cui troviamo le raffinate stampe di Ballen, per entrare poi nello spazio scuro e misterioso del subconscio, dove le immagini perdono consistenza e sono proiettate in modo asincrono su grandi tele che costellano l’ambiente centrale. Sono pezzi dei principali progetti di Ballen, tra cui Outland, Shadow chamber, Boarding house, Asylum of the birds e Roger’s rats. Il percorso è accompagnato da un’installazione sonora di Cobi van Tonder e si chiude con una videoanimazione della serie The theatre of apparitions. La scelta curatoriale delle proiezioni rende le sagome e gli oggetti enormi e tremanti.
Spiega Dandini de Sylva: “L’animale inserito nel mattatoio aveva, secondo Ballen, la stessa presenza, la stessa capacità di trasmettere emozioni che ha all’interno delle sue immagini, dove è immerso in una sorta di incubo umano. Lui dice che gli animali non sono coscienti dell’ambiente, come quelli che compaiono nei suoi primi lavori, realizzati con un approccio puramente documentario. Non sono animali che lui posiziona all’interno di una scenografia, sono animali che vivono con le persone che lui fotografa”. Nel corso del tempo l’artista smette di catturare le sue scene e comincia a costruirle, ma anche nelle opere in cui c’è un lavoro di preparazione “l’animale mantiene quel carattere istintivo, imprevedibile e primitivo a cui lui è molto interessato, sostenendo che spesso sono più gli animali a tirar fuori alcuni meccanismi inconsci dell’uomo, come metafora, che non la teatralità del gesto umano”.
La mostra resterà aperta fino al 27 luglio ed è affiancata da un volume omonimo pubblicato da Quodlibet.
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