Il 30 ottobre il senato italiano ha approvato in quarta lettura la riforma della giustizia, che prevede tra le altre cose la separazione delle carriere dei magistrati requirenti e giudicanti. La riforma è uno dei pilastri del programma di governo di Giorgia Meloni, che ha blindato il provvedimento e in meno di un anno ha ottenuto il via libera dai due rami del parlamento.

Tutte le opposizioni hanno criticato con toni accesi la scelta di “blindare” una riforma costituzionale impedendo di inserire correttivi, ma l’iter legislativo è andato avanti tra commissioni e aula, arrivando fino all’approvazione del senato con 112 voti a favore, 59 contrari e nove astenuti.

Ora lo scontro tra maggioranza e opposizioni si sposta fuori dal parlamento in vista del referendum confermativo sulla riforma, a partire dalla separazione delle carriere. Il testo, non avendo ottenuto in seconda lettura voto favorevole da due terzi dei parlamentari in entrambe le camere, può essere sottoposto a consultazione popolare (come previsto dall’articolo 138 della costituzione).

Sia i partiti di maggioranza (FI, FdI, Lega) sia quelli di opposizione (Pd, M5s, Avs) hanno già annunciato la raccolta di firme per chiedere il referendum, che si dovrebbe tenere entro la primavera del 2026. Lo possono richiedere anche 500mila elettori o cinque consigli regionali.

Dopo il via libera del senato, la presidente del consiglio, Giorgia Meloni, sui social, ha parlato di una riforma della giustizia che rappresenta “un passo importante verso un sistema più efficiente, equilibrato e vicino ai cittadini. Un traguardo storico e un impegno concreto mantenuto a favore degli italiani”. La premier ha sottolineato che “ora la parola passerà ai cittadini, che saranno chiamati a esprimersi attraverso il referendum confermativo”.

Sull’ipotesi che l’esito della consultazione popolare possa trasformarsi in un referendum sul governo, è intervenuto il ministro della giustizia, Carlo Nordio, che ha messo le mani avanti. “Mi auguro che la campagna referendaria si tenga in termini non polemici, aggressivi e soprattutto in senso politico: non deve diventare un referendum sul governo Meloni”, come è stato con Renzi nel 2016.

In una conferenza stampa al senato, subito dopo il via libera alla riforma, la segretaria del Partito democratico (Pd), Elly Schlein, ha avvertito la premier: “Meloni non vuole politicizzare il referendum sulla separazione delle carriere dei magistrati? Se perde il referendum non c’è bisogno che si dimetta perché la manderemo a casa noi”. E poi ha annunciato che il Pd “farà la sua battaglia al referendum”, ricordando che questa riforma “serve a Meloni e a questo governo per avere le mani libere ed essere al di sopra delle leggi e della costituzione”.

A bocciare la riforma, sin dall’avvio, anche l’associazione nazionale dei magistrati (Anm), secondo cui il provvedimento “altera l’assetto dei poteri disegnato dai costituenti e mette in pericolo la piena realizzazione del principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge”.

Il presidente dell’Anm, Cesare Parodi, ha già fissato i paletti in vista della campagna referendaria: “Il nostro comitato per il ‘no’ alla riforma della giustizia agirà in piena autonomia e indipendenza: non possono aderire né partiti, né sindacati, perché vogliamo essere liberi di manifestare il nostro pensiero e abbiamo un preciso dovere verso i cittadini di dimostrarci completamente autonomi e indipendenti”.