Il campo di calcio al centro, e intorno le palazzine non troppo alte del residence Bastogi, periferia nordovest di Roma, uno dei quartieri più malfamati e dimenticati della città. Sul muretto di ingresso la scritta in romanesco: “Lassate ogni speranza”.

Il quartiere, che sorge su una collina tra Torrevecchia e Quartaccio, è stato reso celebre da un film molto popolare del 2017 con Paola Cortellesi e Antonio Albanese, Come un gatto in tangenziale, che dopo il documentario a puntate della Rai Residence Bastogi ha fatto conoscere la zona, ma allo stesso tempo ha cristallizzato nell’immaginario collettivo il mito di un luogo remoto, degradato e in mano alla criminalità organizzata.

“Bastogi è molte altre cose”, spiega subito uno dei residenti, Yuri Diofebo, 32 anni, nato e cresciuto in questa enclave, costruita negli anni ottanta come un residence privato, poi acquisita dal comune di Roma nel 1989 per tamponare l’emergenza abitativa di Roma e sistemare alcune famiglie in difficoltà. Ma come spesso succede nella capitale, la soluzione temporanea è andata avanti per più di trent’anni.

Di tasca propria

A Bastogi vivono i figli dei figli di quelli che ci erano arrivati negli anni novanta per rimanerci qualche mese. Alcuni hanno allargato le case, altri si sono presi quelle di chi se n’è andato. “Siamo cresciuti a Bastogi, è casa nostra, non c’è un altro posto che potremmo chiamare casa. Siamo cresciuti insieme”, racconta Diofebo, che vive con i suoi due cani. Nello stesso palazzo vivono anche il padre e la sorella, cha ha un figlio. I legami tra persone che si sono sentite escluse e abbandonate dal resto della città è uno dei punti di forza del residence, gli abitanti si percepiscono come la parte di una comunità con una forte identità.

“Ho provato ad andarmene in un altro quartiere, ma poi sono tornato”, racconta Diofebo. Funziona così: i figli prendono il posto dei genitori nell’assegnazione della casa, oppure occupano in maniera irregolare gli alloggi lasciati vuoti da chi si è trasferito o da chi è morto.“Abbiamo fatto i lavori di tasca nostra, abbiamo investito tutto quello che avevamo per fare delle case decenti”, continua Diofebo che mostra l’appartamento di due stanze in cui vive, all’ultimo piano: un angolo cottura con tinello, una camera da letto, un bagno e un piccolo balcone che dà sul cortile comune e sul campo da calcio.

A Bastogi vivono tremila persone, quattrocento famiglie, distribuite in sei palazzi. Alcuni sono i vecchi abitanti, altri sono occupanti. “Ma non c’è una fotografia aggiornata delle persone che vivono nel comprensorio, noi vorremmo che l’amministrazione capitolina facesse prima di tutto un censimento”, spiega Maristella Urru, consigliera del gruppo Aurelio in comune nel XIII municipio.

“Sono case piccolissime, tra i venti e i quaranta metri quadrati, in cui abitano famiglie molto numerose”. La situazione, dice Urru, dovrebbe essere sanata e gli appartamenti assegnati regolarmente a chi ci abita. “Queste persone sono nate e cresciute qui, quindi non si possono sradicare. Allo stesso tempo si deve uscire dalla temporaneità”, conclude la consigliera, che denuncia: “C’è una situazione di precarietà lavorativa. Qui le persone fanno lavoretti, pagati poco, spesso in nero. A questo si aggiunge la precarietà abitativa: temono di essere sgomberate, perché risultano precarie ancora dopo trent’anni”.

L’emporio solidale nel residence Bastogi, Roma, 2022. (Andrea Sabbadini, Buenavista)

Gli edifici sono fatiscenti, con i servizi di base che non funzionano e alcuni pericoli incombenti: “Il riscaldamento climatizzato è fuori uso, manca l’acqua calda soprattutto ai piani alti, i garage sono allagati. I muri, intrisi di umidità, in alcuni casi sono pericolanti”.

I residenti denunciano l’assenteismo del comune, che non si occupa della manutenzione ordinaria delle strutture. Non c’è l’allaccio alla rete del gas e gli impianti funzionano con le bombole. Ci sono degli incendi periodici a causa dei corto circuiti e delle stufette che d’inverno sono accese in ogni casa per affrontare il freddo. Ma nel frattempo Bastogi è anche diventato un modello di mutualismo e di autorganizzazione, gli abitanti si occupano autonomamente degli spazi comuni, delle aiuole, delle scale.

Molte associazioni di volontariato offrono delle attività, come il doposcuola per i bambini gestito da Amici dei bimbi onlus e l’emporio sociale di Nonna Roma, aperto tre giorni alla settimana. Un progetto che si chiama Santa Maradona, come una canzone dei Mano Negra, mette insieme diverse realtà del terzo settore che hanno provato a sperimentare una solidarietà non assistenziale a Bastogi. Alcuni spazi sono stati messi a posto dai residenti per permettere lo svolgimento delle attività comuni, è stata fondata una squadra di calcio che gioca in terza categoria.

Nessun sussidio

“È come se fossimo in un paese, ci si dà una mano tra di noi”, dice Yuri Diofebo, che fa il cameriere e assicura: “Ho sempre lavorato. Qui lavorano tutti”. Per il ragazzo, la criminalità legata ai furti, alla rapine e allo spaccio non è più di casa a Bastogi, come avveniva invece una decina di anni fa.

“Lavoriamo tutti, anche se fatichiamo ad arrivare alla fine del mese e molti sono costretti a chiedere i pacchi della spesa”, racconta. “I ladri rubano galline e la criminalità è quella dei poverelli”, scherza il ragazzo, per dire che i problemi più grossi sono quelli legati alla povertà, alla dipendenza da sostanze, ai disturbi psichiatrici e in generale all’esclusione sociale. Mentre in passato ogni famiglia aveva qualcuno in carcere per furti, rapine o spaccio.

Anche Giorgia Zaccaro, 31 anni, madre single di un bambino di quattro, e abitante storica di Bastogi ci tiene a sottolineare il fatto che ha sempre lavorato da quando ha compiuto diciotto anni: “Ho fatto la barista, poi ho lavorato nella ristorazione, quindi ho fatto la portantina in un ospedale. Spesso ho lavorato in nero, tutti lavoretti”. Ma i problemi sono cominciati con la maternità: “Nel 2021 ho lasciato il lavoro per occuparmi di mio figlio, poi dopo un anno mi sono separata dal padre del bambino e sono rimasta da sola e senza entrate”, racconta.

Ora lavora come colf alcune ore al giorno, è pagata sette euro all’ora con un contratto part time. Ha beneficiato per qualche mese dell’assegno di inclusione (Adi), la misura che ha preso il posto del reddito di cittadinanza con il governo Meloni dal 2024. Riceveva 161 euro al mese, il minimo. Ma poi ha perso anche quello. “Ho un Isee di 2.500 euro e quando va bene guadagno 400 euro al mese, il padre del bambino mi dà duecento euro di alimenti, ma per il resto sembra che non abbia diritto a nessun sussidio”, racconta.

Si fa aiutare dai genitori, quando ha bisogno di comprare dei vestiti al figlio o non riesce ad arrivare alla fine del mese, ma non si spiega come sia possibile che non siano previsti aiuti per persone nella sua condizione. “Vivere a Bastogi mi aiuta, pago poco di gas e di bollette, la scuola è vicina, ma mi mandano bollette salate per i rifiuti. Anche se ho chiesto l’esenzione”, spiega.

Anche Valentina Cariso, 38 anni, un’altra abitante di Bastogi, vive grazie all’assegno di inclusione, infatti ha dei problemi di salute gravi che le impediscono di lavorare. “Quando ho finito i soldi, verso la fine del mese, vado a cena da mia zia, c’è sempre un piatto di pasta per me”, racconta Cariso. Il padre è in carcere, e con la madre non va d’accordo perché se n’è andata di casa quando era bambina. La zia, che vive in una delle palazzine di Bastogi, è per Cariso l’unica ancora di salvezza nei momenti di difficoltà.

Grazie alla presenza delle associazioni, cominciata dopo la pandemia, ci sono stati dei passi in avanti. Il 15 ottobre l’assemblea capitolina ha approvato una mozione presentata da Alleanza verdi e sinistra (Avs) che prevede il passaggio di Bastogi alla competenza dell’edilizia residenziale pubblica (Erp) e l’apertura di un tavolo di discussione tra le autorità e gli abitanti per la gestione di questo passaggio. “È un primo risultato che ora deve avviare un processo di cambiamento”, commenta Maristella Urru, che teme tuttavia un progetto di speculazione edilizia sulla zona.

Un campo da calcio a Bastogi, Roma, 2022. (Andrea Sabbadini, Buenavista)

Le associazioni sono entrate a Bastogi durante la pandemia, nel 2020, così è nato il progetto Santa Maradona. “Tante persone non potevano più lavorare e non potevano accedere agli ammortizzatori sociali, perché fino a quel momento avevano lavorato in nero. Avevano difficoltà a mettere insieme il pranzo con la cena”, ricorda Urru. Le associazioni hanno capito che la povertà nel quartiere trainava altri problemi come la povertà educativa e quella alimentare, oppure la difficoltà materiale e tecnologica di accedere ai servizi sociali e a quelli sanitari, di fare richiesta per una casa popolare o per i sussidi sociali. Quindi hanno pensato di offrire anche uno sportello per assistere chi era in difficoltà con la burocrazia.

“Allo sportello aiutiamo ottanta famiglie di Bastogi nelle questioni che riguardano i sussidi e la casa”, spiega Samyra Musleh dell’associazione Nonna Roma. Nel residence l’associazione, attiva in tutta la città, ha un emporio (un social market) aperto tre volte alla settimana, in cui si accede con una tessera a punti. “Si hanno a disposizione cento punti al mese che le persone possono scegliere di consumare, scegliendo quali provviste mettere nel carrello: dalla pasta al latte. Ci sembra un metodo più rispettoso in confronto ai pacchi già preparati”, spiega Musleh. L’emporio è finanziato dai fondi europei e fa parte della rete del banco alimentare. Possono accedervi i nuclei familiari che hanno un reddito più basso di una soglia stabilita o che sono beneficiari di servizi sociali.

“A Bastogi più del 70 per cento dei nostri assistiti è italiano, il 30 per cento riceve l’assegno d’inclusione. Dal nostro osservatorio territoriale possiamo stimare che i beneficiari del reddito di cittadinanza erano almeno il dieci per cento in più di quelli che oggi ricevono l’assegno di inclusione”, continua Musleh. Questo perché i requisiti economici e sociali per accedere all’assegno d’inclusione sono più restrittivi. “Per esempio escludono chi ha commesso alcuni tipi di reato, anche se è successo nei dieci anni precedenti al momento in cui si presenta la richiesta”, conclude Musleh.

Indietro di cinquant’anni

Dopo aver abolito il reddito di cittadinanza nel 2024, il governo guidato da Giorgia Meloni è accusato da molti analisti di volere affossare le misure di contrasto alla povertà. Nella legge di bilancio appena approvata, infatti, i fondi destinati a finanziare l’assegno d’inclusione sono aumentati di 380 milioni di euro per il 2026. Ma per compensare la spesa, sono stati tagliati i finanziamenti previsti per il fondo povertà, che viene ridotto di 267 milioni di euro per il 2026. Nel 2027 i tagli saranno di 347 milioni di euro e sommando i tagli previsti fino al 2035 si arriverà a una diminuzione di 1,65 miliardi di euro sottratti ai percorsi di formazione e inclusione sociale.

La Caritas nel suo rapporto 2025 sulle politiche di contrasto alla povertà in Italia ha scritto che il governo Meloni ha un “limitato interesse per la lotta alla povertà” e anche il segretario della Cgil Maurizio Landini ha recentemente accusato il governo di aver approvato una manovra che favorisce i ceti più ricchi. Secondo il rapporto della Caritas La città di cristallo su Roma presentato il 12 novembre, si è tornati indietro nella capitale a cinquant’anni fa quando i problemi erano il lavoro, l’abitare e l’emarginazione sociale. Per lo studio, quasi il 16 per cento degli abitanti della capitale è a rischio povertà.

“In una manovra che è già esile, si è tagliato ancora sui fondi di contrasto alla povertà”, commenta Alberto Campailla, presidente di Nonna Roma. “La finanziaria prevede infatti uno stanziamento inferiore a quello dell’anno scorso”. Sono aumentati in effetti i fondi destinati all’assegno d’inclusione, ma questo per Campailla non è “nemmeno paragonabile al reddito di cittadinanza”. Il numero dei beneficiari della misura infatti “è dimezzato” e le persone che sono rimaste fuori sono molte.

“Grazie al reddito di cittadinanza abbiamo avuto un milione di poveri in meno, e ora?”, chiede il presidente di Nonna Roma. “Oltre all’assegno di inclusione, non c’è nessun altro strumento di contrasto alla povertà. E ci sono altri problemi che aggravano il quadro delle nuove povertà, come le difficoltà di accesso alla casa che sono aumentate rispetto anche solo a qualche anno fa”.

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