“Ci ha chiamato l’ultima volta diversi giorni prima di morire, sentivamo che non stava bene, ci aveva chiesto soldi per pagare un avvocato, non lo riconoscevo dalla voce”, racconta Henda Ben Ali, 51 anni, originaria di Kebili, una cittadina nel sud della Tunisia. È arrivata, insieme al marito Kamal Abdel Latif, a Roma per partecipare all’udienza preliminare del processo per la morte del figlio Wissem Abdel Latif, il ragazzo tunisino di 26 anni deceduto il 28 novembre 2021 all’ospedale San Camillo di Roma, dopo essere stato legato al letto per cinque giorni, prima all’ospedale Grassi di Ostia e poi nel reparto psichiatrico del San Camillo.
Nel processo, cominciato il 9 aprile, c’è solo un imputato, un infermiere del San Camillo accusato di omicidio colposo e falso per aver somministrato una dose eccessiva di sedativo. La famiglia assicura che Wissem era un ragazzo in salute, sportivo, sempre allegro, senza patologie, e che era partito da casa alla fine di settembre 2021 per cercare lavoro in Europa.
L’Intervista a Kamal Abdel Latif e Henda Ben Ali, genitori di Wissem.
“Nessuno ci ha avvertito di quello che gli stava succedendo, l’ultima volta ci ha telefonato parecchi giorni prima della morte, era nel Cpr di Ponte Galeria, a Roma”, racconta Kamal, 62 anni, che ha faticato molto a ottenere il visto per partecipare al processo in Italia. Nessuno gli aveva detto che Abdel Latif era stato ricoverato in ospedale. Sapevano che era arrivato in Italia e che era stato rinchiuso prima a bordo di una nave per la quarantena, poi in un Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr), ma non avrebbero mai immaginato di ricevere una chiamata dal consolato che li informava che il figlio era morto. Ora vogliono che il processo faccia luce su quello che è successo al ragazzo nei due mesi in cui è stato in Italia.
Nel Cpr di Ponte Galeria aveva paura, non capiva perché fosse finito dentro quella gabbia senza aver commesso alcun reato. La famiglia, parlando con il ragazzo al telefono, si era accorta che c’era qualcosa di strano nelle parole e nel comportamento. Aveva uno strano modo di parlare, era agitato. Ma non immaginava quello che stava per succedergli.
Due settimane dopo la morte in ospedale, le autorità hanno avvertito il padre e la madre del decesso: hanno parlato di “morte naturale” in seguito a un ricovero per problemi psichiatrici, ma i familiari dicono che il ragazzo non ha mai avuto disturbi psicologici, né fisici. “Non è vero che aveva problemi psichiatrici, stava bene, giocava a calcio”, assicura il padre. Quattro anni dopo la morte del figlio non ha smesso di sperare che si scopra la verità.
Prima di lasciare il suo paese Abdel Latif aveva lavorato in un ristorante, in un hotel, in un supermercato e in un bar. Poi con la crisi economica era stato licenziato e aveva deciso di partire, come tanti altri ragazzi nella sua condizione. Era il primogenito di tre figli, l’unico maschio. “Era un figlio e un amico per me”, dice il padre tra le lacrime. Il padre è un autista di pullman, mentre la madre è impiegata al ministero del turismo. Rania, la sorella maggiore, si è trasferita in Arabia Saudita da tre mesi, dopo la laurea, mentre la sorella piccola va ancora a scuola e vive con i genitori. “Si dava molto da fare, dopo le superiori si era messo a lavorare per dare una mano a casa, poi era andato a Tunisi da Kebili”, racconta il padre.
Ascolta | La puntata del Mondo sul processo per la morte del migrante tunisino Wissem Ben Abdel Latif
Wissem Abdel Latif era un grande appassionato di calcio, aveva giocato in una squadra locale, l’Oasis sportive Kebili. In alcune foto che la madre ha sul telefono è in posa con la squadra, solleva una coppa. Sbarcato il 2 ottobre 2021 a Lampedusa dopo 18 ore di viaggio a bordo di un’imbarcazione di pescatori, è incappato in una serie di ingiustizie e abusi che in due mesi lo hanno portato alla morte. Alle 4 di mattina del 28 novembre è stato trovato morto su una barella in un corridoio del reparto psichiatrico del San Camillo, ma non è chiaro a che ora esattamente sia avvenuto il decesso. Probabilmente tra le 2.30, ora in cui è stato controllato l’ultima volta dal personale sanitario, e le 4.20. Secondo fonti mediche, è morto per un arresto cardiaco.
L’avvocato Francesco Romeo, che rappresenta la famiglia, assicura che sul corpo non ci sono segni di percosse, né emorragie interne o traumi. Non è chiaro però perché Abdel Latif sia stato legato al letto mani e piedi per cinque giorni, sia a Ostia sia a Roma. Il ragazzo era già sottoposto a sedazione con due diversi psicofarmaci, a cui se ne è aggiunto un terzo. Nel trasferimento in barella il ragazzo è stato slegato, per essere di nuovo messo in contenzione all’ospedale San Camillo di Roma, senza però essere stato sottoposto a un trattamento sanitario obbligatorio (tso).
L’avvocato Romeo sottolinea che dovrà essere chiarito perché Abdel Latif fosse ancora in detenzione, visto che il giudice di pace di Siracusa aveva sospeso il decreto di respingimento e il provvedimento di trattenimento nel Cpr di Ponte Galeria quattro giorni prima della sua morte. “Da alcuni atti del procedimento che ho avuto modo di consultare emerge che la morte poteva essere evitata. Il 24 novembre 2021, mentre il ragazzo era legato al letto nell’ospedale Grassi di Ostia, il giudice di pace di Siracusa sospendeva l’esecutività del decreto di respingimento e del provvedimento di trattenimento presso il Cpr di Ponte Galeria, provvedimenti emessi dal questore di Siracusa il 13 ottobre. Ma Abdel Latif non l’ha mai saputo”, continua Romeo. Secondo il legale, sia il Cpr di Roma sia l’avvocato che seguiva il tunisino per la richiesta di asilo avrebbero dovuto ricevere la notizia della sospensione del provvedimento di trattenimento e avrebbero dovuto comunicarlo al ragazzo. Inoltre non si spiega perché il ragazzo fosse legato al letto, nonostante fosse stato sedato con diversi psicofarmaci.
Ci sono anche altre anomalie che il processo dovrà chiarire. Dopo l’arrivo in Italia, Abdel Latif è stato trasferito su una nave quarantena, il traghetto Gnv Atlas, dove ha trascorso dieci giorni. Il 13 ottobre era sbarcato ad Augusta ed era stato portato prima a Catania e poi a Roma, nel Cpr di Ponte Galeria, perché giudicato “idoneo alla vita ristretta”, quindi in buone condizioni di salute. Sulla nave quarantena, un traghetto privato usato per isolare i migranti arrivati in Italia via mare per l’emergenza covid, non era stato rilevato nessun comportamento anomalo del ragazzo, né malessere psicologico o vulnerabilità. In un video fatto con il telefono, pubblicato online e acquisito dalla procura, Abdel Latif racconta di essere a bordo di una nave quarantena e di temere il rimpatrio. In un video successivo girato all’interno del Cpr di Ponte Galeria dice che è stato arrestato, che non sa bene perché. Dice di voler fare domanda di asilo e chiede aiuto per trovare un avvocato.
Quando entra nel Cpr di Ponte Galeria Abdel Latif è in buone condizioni psicofisiche. Lo conferma al telefono il direttore del centro, Enzo Lattuga. “Era depresso, ma non è mai stato aggressivo”. Dieci giorni dopo, nel colloquio con la psicologa della struttura manifesta sintomi di sofferenza e di disagio: ansia, tachicardia, senso di oppressione. La psicologa chiede l’intervento di uno specialista dell’azienda sanitaria locale (asl), che avviene l’8 novembre. Durante la visita lo psichiatra diagnostica una sofferenza mentale grave e gli prescrive una terapia farmacologica. La diagnosi parla di “disagio schizoaffettivo”, tra i farmaci prescritti c’è un antipsicotico, il Talofen. Il 19 novembre una nuova visita con la psicologa del Cpr riscontra che i sintomi non sono cambiati, ma sono peggiorati, e chiede un nuovo accertamento allo psichiatra della asl.
Probabilmente Abdel Latif non tollera i farmaci, che gli provocano depressione e incontinenza, in certi momenti rifiuta di assumerli. Le sue ultime ore di vita sono una lenta discesa agli inferi: il 23 novembre, dopo una nuova visita dello psichiatra della asl è disposto il ricovero in ospedale. L’accesso al pronto soccorso del Grassi di Ostia avviene in ambulanza intorno alle 13. Dal lì viene trasferito in reparto verso le 19 con una diagnosi di schizofrenia.
Dopo 48 ore, per ragioni di competenza territoriale, il paziente è trasferito in ambulanza al San Camillo. La prima nota di contenzione parla di “paziente aggressivo”, le altre di un paziente “confuso e disorientato”. Non ci sono posti in reparto e quindi è lasciato su una barella in corridoio. Non parla con alcun mediatore culturale. Anche se gli esami del sangue presentano delle anomalie, non gli viene fatto un elettrocardiogramma. A 72 ore dall’ingresso al San Camillo, Abdel Latif muore. Avrebbe dovuto essere liberato quattro giorni prima.
In Tunisia ci sono state molte proteste per la morte del ragazzo, perché numerosi ragazzi tunisini sono sottoposti a trattamenti simili, in quanto la Tunisia è considerata un paese sicuro e quindi le persone sono trasferite al loro arrivo direttamente nei Cpr per essere rimpatriate, senza che spesso gli sia garantita la possibilità di chiedere l’asilo o siano informati dei loro diritti. Anche molte associazioni italiane che si occupano di immigrazione, tra cui LasciateCIEntrare e No Cpr, hanno organizzato proteste per chiedere verità e giustizia per Wissem Abdel Latif e contro il sistema dei centri di detenzione italiani, istituito nel 1998 ed esteso di nuovo a partire dal 2017.
Nelle stesse ore in cui cominciava il processo per la morte di Abdel Latif, quaranta persone erano trasferite con la forza da diversi Cpr italiani a quello di Gjadër, in Albania, suscitando critiche e proteste. Una ventina di loro sono ancora in detenzione e le proteste sono continue all’interno del centro. “La storia di Wissem Abdel Latif è emblematica del sistema di detenzione amministrativa in Italia. Le persone sono sottoposte a detenzione indiscriminata e se protestano sono sedate con psicofarmaci”, commenta Yasmine Accardo del Comitato verità e giustizia per Wissem. Nel dicembre del 2024 il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti del Consiglio d’Europa ha ripreso l’Italia per la situazione all’interno dei Cpr, in particolare ha contestato l’uso massiccio degli psicofarmaci all’interno di queste strutture.
In realtà questa non è una novità: l’uso della sedazione per le persone che sono in una condizione di privazione della libertà personale era già stato denunciato vent’anni fa da un rapporto sul centro di detenzione Serraino Vulpitta di Trapani nel 2002. Un’inchiesta della rivista Altraeconomia del 2023 ha mostrato che nei Cpr le persone trattenute sono “tenute buone” con un uso arbitrario ed eccessivo dei medicinali. Nell’agosto del 2024 un altro ragazzo, Oussama Darkaoui, 22 anni di origine marocchina, è morto nel Cpr di Palazzo San Gervasio, dopo aver fatto due accessi in ospedale in stato di incoscienza con un grande quantitativo di psicofarmaci nel sangue.
“Era partito per aiutarci e invece è morto come una bestia”, dice Kamal Abdel Latif, promettendo di partecipare a tutte le udienze del processo, che riprenderà a settembre. “Non ci fermeremo finché non sapremo la verità, la storia di nostro figlio è la storia di tanti ragazzi che vengono trattati in questo modo. Non deve succedere più”, conclude la madre Henda Ben Ali.
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