L’attacco israeliano in Qatar continua a scuotere il Medio Oriente, e non solo. A questo punto è lecito chiedersi se Israele abbia commesso un azzardo di troppo, sulla scia della temerarietà e dell’impunità che lo hanno spinto fino a qui.
Il 14 settembre i paesi arabi si riuniranno per un vertice a Doha, la capitale qatarina, con l’obiettivo di analizzare le conseguenze del raid israeliano del 9 settembre, che ha preso di mira alcuni dirigenti politici di Hamas in un quartiere residenziale della città. A turbare i governi arabi non è il fatto che Israele abbia attaccato Hamas (un’organizzazione per la quale non hanno particolare simpatia) ma che abbia osato colpire uno degli emirati del Golfo, dove tra l’altro c’è la più grande base statunitense della regione.
Un segno di questo nervosismo è il fatto che Mohamed bin Zayed, presidente degli Emirati Arabi Uniti ed emiro di Abu Dhabi, si sia precipitato a Doha, dove è atteso anche Mohammed bin Salman, principe ereditario saudita. Non molto tempo fa gli stessi paesi avevano imposto un blocco al Qatar ed erano in guerra con la famiglia reale Al Thani.
I paesi del Golfo sono rimasti abbastanza defilati dopo gli attentati di Hamas del 7 ottobre del 2023, anche quando la reazione israeliana è diventata una punizione contro tutta la popolazione palestinese. Gli Emirati Arabi Uniti, che nel 2020 hanno stabilito relazioni diplomatiche con Israele, non hanno rimesso in discussione questa decisione, mentre l’Arabia Saudita continua a dirsi pronta a riconoscere lo stato ebraico. Il Qatar, invece, ha agito come mediatore tra Israele, gli Stati Uniti e Hamas nella vicenda degli ostaggi e in vista di un possibile cessate il fuoco, ricevendo a più riprese a Doha il capo del Mossad, il servizio d’intelligence israeliano.
Ma di recente la portata della superiorità militare israeliana e l’arroganza che sembra animare il governo di Tel Aviv hanno cominciato a preoccupare le tre grandi potenze del Golfo. Gli Emirati hanno fatto sapere che un’annessione della Cisgiordania occupata da Israele sarebbe intollerabile. L’Arabia Saudita ha invece scelto di collaborare con la Francia per organizzare la conferenza sulla soluzione dei due stati che si terrà tra pochi giorni nella sede delle Nazioni Unite e che fa arrabbiare Israele. È in questo contesto che c’è stato il raid di Doha.
Posizione scomoda
Il ruolo degli Stati Uniti è cruciale. Washington è l’alleato privilegiato di Israele ma anche dei paesi del Golfo, come apparso evidente dalle visite di Donald Trump dopo il suo ritorno alla presidenza. Il raid di Doha, così come il piano di espulsione dei palestinesi di Gaza (che sembra essere l’obiettivo finale dell’offensiva in corso), ha rovinato questo quadretto.
Trump si è ritrovato in una posizione scomoda e ha dichiarato di non essere stato informato in anticipo dell’attacco, un’affermazione smentita da alcune fonti. Secondo la stampa statunitense il presidente avrebbe avuto una telefonata burrascosa con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
La reazione dei paesi del Golfo evidenzia i timori per un’egemonia israeliana che va oltre ogni immaginazione e oltre ciò che poteva essere accettabile in una regione già instabile. Se Israele si permette incursioni negli stati arabi senza preoccuparsi delle conseguenze, in particolare della reazione di un’opinione pubblica vicina ai palestinesi, mette in discussione il potere stesso di quegli stati.
Questo spiega la mobilitazione diplomatica sulla vicenda. È la prima crepa in un ordine regionale che sembrava consolidarsi inesorabilmente.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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