Possiamo perdonare in anticipo Donald Trump per i superlativi che immancabilmente userà per descrivere i primi cinque mesi della sua presidenza. La modestia non è il suo forte, si sa, ma bisogna riconoscere che dall’inizio del suo secondo mandato ha accumulato vari successi, o comunque vari apparenti successi.

Trump ha ottenuto le sue ultime vittorie sul fronte interno. L’adozione di quella che ha battezzato one big beautiful bill (grande e bellissima legge) di bilancio, nonostante l’opposizione di qualche “franco tiratore” repubblicano. La decisione della corte suprema che lo protegge dai giudici troppo indipendenti. E infine il colpo durissimo assestato alla Cbs, che ha accettato di versare 16 milioni di dollari per la realizzazione della futura biblioteca presidenziale di Trump, risolvendo così una causa legale che l’emittente avrebbe invece sicuramente vinto in tribunale.

In campo internazionale il presidente statunitense può vantarsi di avere bombardato l’Iran e poi di aver fermato la guerra tra Teheran e Tel Aviv. Di aver sottomesso gli europei nell’ambito della Nato, imponendo un aumento della spesa militare (e facendosi chiamare “papino” dal segretario generale dell’alleanza atlantica). E inoltre, per quanto la vicenda abbia ottenuto poca attenzione, di essere riuscito a far firmare un accordo tra il Ruanda e la Repubblica Democratica del Congo sul conflitto nella parte orientale della Rdc. Non male, no?

Ma allora perché ho parlato di successi “apparenti”? Per capirlo è necessario analizzare in modo più approfondito questa presunta valanga di vittorie, che a ben vedere solleva diversi interrogativi, nella sostanza e nella forma.

Prima di tutto dobbiamo tenere presente che Trump ama modificare le regole del gioco a suo vantaggio. Con le sue azioni, infatti, il presidente ha indebolito il potere giudiziario e quello della stampa, continuando a contorcere il sistema per ampliare la propria autorità. Di sicuro non è una buona notizia per la democrazia.

Le carte in tavola sono cambiate anche in campo internazionale. Oggi il motto universale è “America first and alone”, l’America per prima e da sola. Gli alleati, in quest’ottica, servono solo a pagare per la protezione di Washington. L’unilateralismo è tornato, con l’obbligo di ottenere risultati in tempi brevi.

Per il momento la potenza statunitense è fondamentale in Medio Oriente e fa paura agli europei, che temono di perdere l’ombrello della Casa Bianca e non riescono a immaginare un’Europa autonoma. Ormai è rimasta solo la Cina a tenere testa a Washington, unica rivale in un mondo messo in riga da Trump.

Il piano funziona, ma ci sono anche alcuni limiti. La politica di Trump sull’Ucraina è un fallimento ed è stata ulteriormente peggiorata dalla decisione recente di interrompere alcune consegne di armi e munizioni. Trump è ossessionato dal suo rapporto con Vladimir Putin, che però non gli ha regalato alcun successo. Se ricordiamo la promessa fatta durante la campagna elettorale di mettere fine alla guerra nel giro di 24 ore, i risultati sono impietosi.

La compiacenza di Trump nei confronti di un altro uomo forte, Benjamin Netanyahu, lo ha spinto a lasciare campo libero a Israele, che a Gaza è responsabile di una tragedia umana e politica enorme. Il primo ministro israeliano sarà a Washington il 7 luglio, quando Trump potrebbe finalmente annunciare un cessate il fuoco a Gaza.

Sarebbe una grande notizia, sia per i civili palestinesi sia per gli ostaggi israeliani. Ma attenzione agli sviluppi successivi: un cessate il fuoco non è la fine della guerra, e nelle parole pronunciate da Trump negli ultimi cinque mesi non c’è nulla che lasci ben sperare per il futuro di una regione alla ricerca di una soluzione politica.

Trump ha dalla sua parte l’efficacia della brutalità, ma il mondo che sta disegnando non è affatto sicuro. E intanto risuona il ticchettio delle bombe a orologeria che sta lasciando sul suo cammino.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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