Nel momento della crisi è sempre alla fine, quando una parabola volge al termine, che ci si pone l’interrogativo dell’inizio: com’è cominciato tutto? Che passato ha alle spalle il nostro presente?
Per quanto riguarda l’occidente rispondere a questa domanda non è semplice, non basta armarsi di bussola. Dicendo “occidente”, infatti, non intendiamo un punto cardinale, ma qualcosa che è al tempo stesso uno spazio fisico e un’idea, e che comprende angoli di mondo molto remoti. Nella sua epoca d’oro l’occidente era in costante espansione, ora invece si fa sempre più piccolo. Fino a un attimo fa al cuore dell’occidente c’era l’alleanza tra Europa e Stati Uniti, apparentemente indistruttibile; adesso però il presidente statunitense Donald Trump si sta impegnando a farla a pezzi e, se dovesse riuscirci, ci troveremmo di fronte a una frattura epocale: il tramonto dell’occidente euroatlantico.
Se la culla dell’occidente non è nell’antica Grecia, allora dov’è? Forse nell’undicesimo secolo, quando papa era Gregorio VII, che i suoi sostenitori chiamavano “santo Satana”
Ma insomma, quando è cominciata la storia dell’occidente? Se ci atteniamo alla versione breve, la data è il 6 aprile 1917, quando gli Stati Uniti sono entrati nella prima guerra mondiale al fianco di Regno Unito e Francia, siglando un’alleanza poi rinnovata 24 anni dopo da Winston Churchill e Franklin Delano Roosevelt, il 9 agosto 1941 a Placentia Bay, al largo di Terranova, in Canada. Siccome il loro incontro doveva restare segreto, ai giornalisti incuriositi era stato detto che Roosevelt era impegnato in una battuta di pesca. A bordo della nave corazzata Prince of Wales il primo ministro britannico e il presidente statunitense siglarono l’alleanza contro Hitler e gettarono le basi dell’ordine postbellico. La loro carta atlantica prometteva a tutti i popoli del mondo il rispetto dei diritti umani, la sovranità nazionale, un equo commercio, il disarmo e, soprattutto, la pace. Tutti i popoli avrebbero dovuto avere la possibilità di “vivere sicuri entro i loro confini”, conducendo una “vita libera dal timore e dal bisogno”. L’occidente, sembrava affermare solennemente la dichiarazione, non è un impero e non mira a una politica di potenza: è un progetto normativo rivolto all’umanità intera.
Però le origini dell’occidente non stanno tutte in questo inizio. Da dove provenivano gli ideali che hanno ispirato la carta atlantica? Su questo punto le opinioni divergono molto. Secondo l’archeologa britannica Naoíse Mac Sweeney, che si occupa di studi culturali, l’occidente prese a modello l’antica Roma; altri invece ritengono che i suoi ideali maturarono ad Atene nel quinto secolo avanti Cristo. All’epoca alcuni geniali riformatori – Solone, Clistene e Pericle – diedero vita alla prima democrazia del mondo. Ma è davvero così? È davvero la democrazia della polis la culla dei valori occidentali? C’è un filo che collega Atene al nostro presente? Lo storico Heinrich August Winkler ne dubita. Nella sua monumentale storia dell’occidente ripercorre le particolarità della democrazia attica: donne, schiavi e stranieri non potevano votare e l’idea dei diritti inalienabili di ogni essere umano era del tutto sconosciuta ad Atene.
Ma se la culla dell’occidente non è nell’antica Grecia, allora dove cercarla? Forse, inaspettatamente, nel medioevo, per precisione nell’undicesimo secolo, quando sul soglio pontificio sedeva papa Gregorio VII (1015–1085), un uomo che i suoi sostenitori chiamavano “santo Satana”, tanto era smisurata e sfacciata la sua sete di potere. Gregorio VII sosteneva di poter emanare leggi e perfino deporre imperatori a proprio piacimento; solo a lui i principi avrebbero dovuto baciare i piedi. Raccolse le sue rivendicazioni in un documento dal titolo Dictatus papae (dettami papali), e lo storico Johannes Fried ha ragione sul fatto che “poche volte nella storia una formula così concisa ha saputo restituire nella sua interezza una trasformazione epocale, una delle grandi rivoluzioni della storia europea”.
Papa da pochi anni, Gregorio VII fece infatti scoppiare lo scandalo del secolo quando invocando la libertà della chiesa per attaccare Enrico IV di Franconia, imperatore romano (1050–1106), finché questo non perse la pazienza e gli intimò di abdicare: “Scendi dal soglio pontificio!”. La “verga di Dio” passò immediatamente al contrattacco: Gregorio VII scomunicò Enrico IV e nel 1077 lo costrinse a passare tre giorni tra le nevi e i ghiacci davanti al castello di Canossa, vestito da penitente, per implorare il suo perdono.
Cosa c’entra questa lotta tra papa e imperatore con le origini dell’occidente? Inizialmente il conflitto tra i due riguardava solo la questione delle investiture, cioè del diritto alla nomina dei vescovi. Gregorio voleva impedire la compravendita sfrenata delle cariche ecclesiastiche e guardava con orrore al matrimonio dei preti. “In segreto”, scriveva al suo alleato Pier Damiani, “la fornicazione dei sacerdoti” può anche essere tollerata, “ma le concubine, mogli a tutti gli effetti, i loro corpi gravidi e i bambini urlanti sono la vergogna della chiesa”.
I contraccolpi della lotta per le investiture sono stati di enorme portata: con fatica e innumerevoli scontri si è ridisegnata materialmente e giuridicamente la spartizione del potere tra impero e papato. Così è stata posta la prima pietra miliare di quello che sarebbe diventato principio fondamentale delle società occidentali: la separazione del potere secolare da quello spirituale. A questo si aggiunsero gli effetti profondi e socialmente esplosivi della rivoluzione papale, come la definisce il giurista Harold J. Berman nel suo Diritto e rivoluzione. Gregorio VII, infatti, oltre a essere un riformatore duro e puro, era anche un teologo radicale che detestava profondamente la classe dominante. Che i “gran signori” si fregiassero di un’aura di santità lo disgustava: non li considerava altro che sfruttatori, criminali senza dio, proni a una violenza satanica e schiavi della propria sete di gloria. “Chi non capirebbe che re e principi discendono da gente senza dio, che si è elevata al di sopra del prossimo suo con tracotanza e a suon di saccheggi, tradimenti e assassinii, insomma con ogni sorta di crimine, aizzata dal diavolo, principe di questo mondo? Chi non capirebbe che sono uomini accecati dall’avidità e da un’intollerabile superbia?”. Anche Wazone, vescovo di Liegi e confratello del papa, non conosceva mezzi termini: principi, re e imperatori erano potenze di morte. “L’investitura imperiale uccide, quella vescovile dona la vita”.
Senza dubbio per Gregorio VII il sacro metro sul quale andava misurata la quotidianità profana era la Bibbia. Il papa simpatizzava con i predicatori della povertà dell’Italia settentrionale e sosteneva il movimento Pace di Dio che tentava di porre fine alla violenza dei cavalieri predoni, al diritto di faida e alla legge del più forte. Inoltre, aveva stretti legami con la congregazione riformista dell’abbazia francese di Cluny, che rivendicava anch’essa la “libertà della chiesa”, ossia la sua indipendenza dal potere imperiale. Berman descrive papa Gregorio VII come un attivista e un ardente rivoluzionario che non si accontenta di pregare in silenzio, ma s’impegna perché il destino dell’umanità migliori già nel corso della vita terrena. Uno degli strumenti a disposizione per raggiungere questo scopo era il diritto, poiché in esso s’incarnava la giustizia divina: “Ho amato la giustizia e ho odiato l’iniquità”, furono le ultime parole di Gregorio VII.
Il suo impegno non fu vano perché, a poco a poco, l’ideale di giustizia giudaico-cristiano riuscì a far breccia nel diritto medievale di origine romana. Come scrive il filosofo Jürgen Habermas nella sua Storia della filosofia, nella rivoluzione papale per la prima volta convivono “il concetto veterotestamentario di legge e il diritto romano”. I dieci comandamenti “fanno da anello di congiunzione tra il diritto romano e l’etica cristiana”.
In un’epoca di forti contrapposizioni sociali, questa fusione epocale tra diritto romano e morale cristiana si rivelò tutt’altro che innocua: a risultare incendiaria per l’ordine sociale medievale fu soprattutto l’idea che l’uomo fosse fatto a immagine e somiglianza di Dio. Nel 1220 il Sachsenspiegel, la più importante fonte giuridica dell’epoca, sosteneva che “Dio stesso è legge”, una provocazione impensabile prima della rivoluzione papale.
Anche nella magna carta, la “grande carta delle libertà” siglata nel Regno Unito nel 1215, si esprime il desiderio religioso di una legge giusta. E non a caso John Ball, l’uomo a capo della rivolta contadina britannica del 1381, era un uomo di chiesa e un oratore brillante che nei suoi infuocati discorsi prendeva alla lettera il testo biblico: “Quando Adamo zappava ed Eva filava, dov’era il gentiluomo?”. Siccome dio è l’unico signore, nessun uomo deve innalzarsi al di sopra del suo prossimo dominandolo. A John Ball questa affermazione costò la vita: Riccardo II lo fece impiccare, sventrare e squartare.
Anche i dodici articoli di Memmingen del 1525, il principale manifesto della guerra dei contadini tedeschi, chiedevano “ai signori” di porre fine alla servitù della gleba, poiché “Cristo versando il suo prezioso sangue ci ha redenti e riscattati tutti, dal pecoraio fino al rango più elevato, nessuno escluso. Pertanto è dimostrato nelle scritture che siamo liberi e desideriamo essere liberi”. Perfino nel Bill of rights britannico del 1689 si sentiva ancora l’eco lontana di una critica al potere di derivazione biblica. E meno di un secolo dopo, nel 1776, quei diritti conquistati nel Regno Unito ispirarono la dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, il cui incipit recita: “Tutti gli uomini sono creati uguali”.
Per poter fare a meno di ogni riferimento a dio bisogna aspettare la rivoluzione francese con la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, del 1789. Anche lì però si ritrova qualche traccia di sacralità, tanto che si conferma valido quanto sostiene Heinrich August Winkler rispetto a tutte le costituzioni occidentali: “L’idea dell’uguaglianza di fronte alla legge non si sarebbe affermata senza la fede nell’esistenza di un unico dio al cospetto del quale gli uomini sono tutti uguali”.
Dopo le rivoluzioni di Stati Uniti e Francia dovranno trascorrere ancora centocinquant’anni prima che il credo egualitario dell’occidente si globalizzi diventando universale. Nel 1948, dopo che Stati Uniti e Unione Sovietica sconfissero Hitler al prezzo di enormi sacrifici e il mondo venne a conoscenza del genocidio degli ebrei d’Europa, l’assemblea generale delle Nazioni Unite adottò la dichiarazione universale dei diritti umani. Ma solo nel 1989, con la caduta del muro e il tramonto del potere sovietico, il progetto normativo dell’occidente, dopo un prodromo di mille anni, sembrò aver trionfato una volta per tutte: libertà, uguaglianza, giustizia, separazione dei poteri, autodeterminazione. Lo spirito del mondo sembrava aver finalmente tagliato il traguardo.
È una storia edificante che oggi riscuote grande successo, perché è come un balsamo sull’anima ferita dell’occidente. Eppure è una verità quantomeno parziale, come ci rivelano le vicende dell’undicesimo secolo, quando Gregorio VII, “nel nome di Dio”, non si limitava a combattere l’aristocrazia, ma puntava anche a liberare dagli “infedeli” Gerusalemme, la terra santa. Questi suoi progetti per l’oriente furono ripresi da papa Urbano II che nel 1095 convocò la prima crociata e, al grido di “battesimo o morte!”, già durante il viaggio d’andata assassinò tutti gli ebrei su cui riuscì a mettere le mani, tanto che qui si rintraccia l’origine della catastrofica vicenda degli ebrei d’Europa. Insomma, nel corso della storia il monoteismo imperiale si è lasciato alle spalle una scia di sangue, dando vita a un inestricabile intreccio di religione e potere, come quello che riscontriamo nell’islam. Ancora oggi, l’orgia di violenza scatenata dai conquistatori cattolici in Sudamerica toglie il fiato: Hernán Cortés annientò l’impero degli aztechi, Francisco Pizarro quello degli inca e milioni di indigeni furono vittime della barbarie bianca o morirono nelle miniere. “Noi spagnoli”, dichiarò Cortés, “soffriamo di una malattia che solo l’oro può guarire”.
Nel sedicesimo secolo, con il ferro e il fuoco l’occidente cristiano non scoprì solo continenti sconosciuti, ma anche se stesso. Specchiandosi nei “selvaggi” si pensò civiltà “superiore”, in possesso, proprio come i crociati del papa, di una presunta verità. Abbiamo avuto bisogno d’innumerevoli studi postcoloniali per capire che l’occidente prima ha guardato con meraviglia a ciò che gli era estraneo e poi lo ha soggiogato con entusiasmo, quando non lo ha direttamente annientato. Ci sono stati uomini bianchi che hanno continuato a sostenere la schiavitù quando ormai la sua oscenità morale era palese da tempo. E mentre a Filadelfia i padri fondatori degli Stati Uniti – terra i cui nativi erano stati da tempo assassinati – scrivevano la costituzione, dichiarando mirabilmente che “tutti gli uomini sono stati creati uguali”, nelle loro case sgobbavano gli schiavi. Sono queste inquietanti contraddizioni ad aver spinto studiosi come Stuart Hall o Orlando Patterson a domandarsi quale sia il rapporto tra l’occidente e gli altri: abbiamo ottenuto la libertà solo sottomettendo altre culture? L’oppressione è solo il rovescio della libertà? L’occidente è stato attraversato dall’inizio dalla frattura tra potere e morale?
Basta pensare agli Stati Uniti del dopoguerra per capire quanto siano pervasivi gli stili di vita occidentali. La libertà disinvolta, le promesse della cultura pop, la bellezza abbagliante del cinema e le meraviglie della tecnologia capitalista: quelli furono gli anni d’oro nella “terra dei liberi”. Uno splendore destinato a impallidire presto. Nel 1953 britannici e statunitensi eliminarono Mohammad Mossadeq, presidente democraticamente eletto dell’Iran, con un colpo di stato che il mondo musulmano, secondo Tamim Ansary, autore di Un destino parallelo. La storia del mondo vista attraverso lo sguardo dell’islam (Fazi 2010), non ha ancora dimenticato. Sette anni dopo il governo degli Stati Uniti fece assassinare Patrice Lumumba, presidente di un Congo che aveva da poco raggiunto l’indipendenza, nonostante il presidente Dwight Eisenhower avesse appena sottolineato davanti alle Nazioni Unite l’importanza dell’autodeterminazione dei popoli. Ma a dare il colpo di grazia al sogno occidentale è stata la guerra del Vietnam, sono stati i bombardamenti a tappeto col napalm, è stato l’agente arancio che ha contaminato tutto il paese, sono state le atrocità commesse dall’esercito statunitense. Lì tutto l’occidente ha detto addio alla sua autorità morale. La “potenza del bene” era venuta meno alle sue promesse.
Nel 2001, dopo l’attacco terroristico alle torri gemelle, il diritto internazionale ha ricevuto un colpo dal quale non si è mai ripreso, assestato dallo sciagurato presidente George W. Bush che, giustificando a suon di bugie la sua guerra in Iraq, ha distrutto la credibilità degli Stati Uniti: non era certo così che il resto del mondo si era immaginato la pax americana. Se solo avesse dato ascolto a suo padre! George Bush senior (1924–2018) aveva infatti intuito la tragedia che sarebbe potuta scaturire dall’arroganza statunitense e, conoscendo la maledizione del vincitore tracotante, dopo la caduta del muro avrebbe voluto rifondare un ordine mondiale che fosse condivisibile e in grado di sopravvivere anche a un’eventuale perdita d’influenza dell’occidente. Secondo lui, oriente e occidente, nord e sud del mondo avrebbero dovuto “vivere e prosperare in armonia”, il diritto avrebbe dovuto sostituire “la legge della giungla” e il più forte rispettare i diritti del più debole.
Nel 2024 è stato eletto per la seconda volta alla presidenza degli Stati Uniti un uomo che a queste affermazioni non può che reagire con una risata. Donald J. Trump sta distruggendo il principio della separazione dei poteri, disprezza il sistema giudiziario e cerca di mettere a tacere le università. Il suo nuovo nemico è la vecchia Europa, il suo nuovo amico Vladimir Putin. Lo storico tradimento del liberalismo compiuto da Trump e il suo impegno a smantellare il progetto occidentale mandano in visibilio i nazionalisti di tutto il mondo. È come se il Vaticano rinnegasse il cattolicesimo. E in effetti, Trump incarna la decadenza dello spirito occidentale: un vuoto oscuro, una pagana celebrazione del potere.
Non c’è da stupirsi che una volta toccato il fondo del nichilismo la religione entri di nuovo in gioco. In un fotomontaggio prodotto dall’intelligenza artificiale, Trump si è rappresentato come il nuovo papa: conferendosi l’investitura papale, ha attaccato l’essenza dell’occidente, la separazione tra stato e chiesa il cui germe risale a Gregorio VII. Per Trump l’etica religiosa va trattata come un rifiuto ingombrante: non ha avuto pietà nel tagliare i fondi destinati ai bambini africani. Perché l’empatia, come predica il suo complice Elon Musk, “è la debolezza fondamentale della civiltà occidentale”. E allora salvare quel che resta dei “valori occidentali” dopo l’abbandono statunitense diventa compito dell’Europa, quella provincia globale che sta regalando vittorie senza precedenti agli antioccidentali.
Capire perché gli antioccidentali stiano avendo la meglio non è difficile. L’occidente ha portato avanti per cinquecento anni la globalizzazione capitalista, liberando miliardi di persone dalla miseria e lasciandocene altrettante. Ma la globalizzazione non è mai stata una pozione magica per la democrazia, anzi: la forza bruta del mercato globale ha indebolito gli stati, che la concorrenza impegna in una lotta senza quartiere; ha aumentato la disuguaglianza; ha fatto prosperare le paure, ristagnare i salari e diminuire le imposte sui patrimoni. Nel contesto neoliberalista d’inizio millennio, gli speculatori hanno dato vita a una terra di nessuno per affari clandestini nel mondo offshore costruendo porti sicuri per capitali in fuga dal fisco, capitali di cui ci sarebbe stato molto bisogno per finanziare lo stato sociale dei singoli paesi. Oltretutto, nel 2008 è stato necessario salvare il capitalismo finanziario dalla bancarotta e a pagare il conto di quella crisi non è stato chi l’aveva provocata ma i cittadini qualunque e le fasce più povere della popolazione. A ciò si aggiungono problemi di portata globale, come le migrazioni e la crisi climatica, che oltrepassano le capacità d’intervento dei singoli stati. Insomma, la globalizzazione si ritorce contro i paesi da cui è partita e nutre i loro nemici. Dove c’era la libertà, ora deve subentrare la sicurezza.
Cosa ne sarà dell’occidente non lo sanno neanche gli indovini. Possiamo comunque ipotizzare tre scenari. La prima possibilità è il fallimento di Donald Trump, con il movimento Make America great again che svanisce e la fine dell’incubo autocratico statunitense. In questo scenario, dopo aver visto le profondità dell’abisso, l’occidente finalmente si sveglia e riesce a riformare il sistema euroatlantico, interrogandosi sui motivi della rabbia e del rifiuto suscitati dal liberalismo e sulle promesse infrante dalle democrazie capitaliste. Rendendosi conto di non poter più dettare l’agenda politica globale, prenderà brutalmente sul serio la serissima dichiarazione di guerra di Putin, ma al tempo stesso – con stoica diplomazia – non lascerà nulla d’intentato per far passare l’appetito all’imperialista famelico. L’occidente si spenderà per l’umanità senza ipocrisie, riformando le Nazioni Unite, difendendo il diritto internazionale e rivendicando diritti umani per ogni angolo di questa terra. Parlando la lingua di Karl Marx e quella degli angeli s’impegnerà per una tassa sulla ricchezza da far pagare anche ai cleptocrati del sud globale. Infine, a tutti quelli che non vorrebbero sentirselo dire spiegherà che una politica climatica collettiva non è un limite alla libertà presente ma una condizione imprescindibile della libertà futura. Sembra tutto poco plausibile? Certo che sì, ma lo erano anche le rivoluzioni costituzionali del settecento.
Il secondo scenario, quello al momento più gettonato, prevede che la stella d’occidente continui a tramontare. Con la politica identitaria aggressiva di Trump e la devastazione apocalittica di Gaza, l’appello ai valori occidentali diventa definitivamente una farsa. Approfittando dello stato di guerra globale, i nazionalisti restano al potere, promettendo di uscire da una globalizzazione inutile e un ritorno a una vita indisturbata al riparo di barricate costruite con rabbia, odio verso il mondo esterno e dazi elevatissimi. L’alleanza euroatlantica si sfalda e l’Europa va per la sua strada trasformandosi nel museo dell’occidente. Sulla cartina geopolitica, tra grandi aree armate fino ai denti, l’Unione europea sembra un ambizioso nano tra i giganti: Russia, Cina, India e Stati Uniti. Vige la legge del più forte, e il sogno di un mondo unito che risolve congiuntamente i problemi più urgenti svanisce nel polveroso archivio dell’umanesimo europeo, insieme ai diritti transnazionali di Immanuel Kant. Oggi stabilire a chi spettano i diritti e a chi no torna a essere solo di competenza dei principi. Il papa ogni tanto protesta. I potenti lo amano molto.
Anche questa, però, potrebbe essere solo una parentesi, un momento di passaggio che precede un’epoca radicalmente nuova. Perché c’è un terzo scenario, che vede nella Cina un soggetto che non fa mistero della sua “missione storica”. Nel sogno cinese, spiega il filosofo Zhao Tingyang, il sole della civiltà fa ritorno alla sua culla asiatica, uno spazio che l’occidente ha voluto a lungo ignorare. Nel mondo salvato dai cinesi l’economia smette di essere il nostro destino, ordine e sicurezza tornano a far parte della vita dei cittadini e la pace regna ovunque. Democrazia e diritti umani non servono più: sono residui di un’epoca ormai tramontata, quella del cosiddetto occidente. ◆ sk
Thomas Assheuer è un giornalista tedesco. Dal 1997 al 2021 è stato caporedattore della sezione Feuilleton del settimanale Die Zeit, per il quale continua a scrivere come freelance. Questo articolo è uscito su Die Zeit con il titolo “Was macht den Westen aus?”.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1621 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati