In un articolo uscito sul quotidiano La Stampa, Francesca Sforza si pone una domanda interessante: “E se la scomposta maratona per l’emancipazione femminile – disseminata di ostacoli, ritardi, false partenze e fughe in avanti – passasse anche per il populismo?”.

Seguono esempi, europei e italiani: Marine Le Pen in Francia, Beata Szydło in Polonia, Frauke Petry in Germania, e nel nostro paese Virginia Raggi e Chiara Appendino, candidate a Roma e Torino dal Movimento 5 stelle – “tutte diverse, tutte donne, ognuna capace di usare un linguaggio che colpisce nel segno di un elettorato deluso, sfiancato, impoverito, arrabbiato”.

Il loro successo verrebbe dall’aver portato nel loro impegno politico doti femminili tradizionali: “parole concrete”, il “modo rassicurante che hanno le casalinghe quando fanno i conti delle entrate e delle uscite in una famiglia”, volti materni, “salti mortali” per tenere insieme responsabilità pubbliche e vita privata. Anche Angela Merkel, vista sotto questo profilo, appare come “la donna che i tedeschi amavano fino a che si comportava come una brava amministratrice di condominio, ma che hanno smesso di amare quando ha deciso di passare alla storia”.

La bellezza e le qualità materne prevalgono su programmi e competenze

Che l’emancipazione delle donne si portasse dietro per inerzia, radicamento secolare o mancanza di altri modelli praticabili, comportamenti e valori considerati “naturali”, non era difficile da prevedere. Eppure, anche il femminismo degli anni settanta, dopo la svolta radicale rispetto all’associazionismo femminile che l’aveva preceduto, sembra avere sottovalutato l’uso che più o meno consapevolmente ogni donna fa, per potere e rivalsa, delle potenti attrattive che le sono state riconosciute: la seduzione e la maternità.

Di che altro parlano i commentatori politici quando le candidate sono donne? Sopravvalutate o denigrate, la bellezza e le qualità materne prevalgono di gran lunga su programmi e competenze, a dimostrazione che le “funzioni essenziali” del sesso femminile restano quelle che le hanno tenute lontane dalla “cosa pubblica”, e che hanno reso faticoso o impossibile il loro accesso a una cittadinanza piena.

L’emancipazione sembra aver aperto semplicemente le porte di casa e trasferito dentro un ordine – che resta nelle sue strutture di fondo “maschile” benché coperto dalla neutralità – quel “complemento” di cui si è cominciato a sentire la mancanza.

A distanza di oltre un secolo, le parole di Paolo Mantegazza suonano quasi profetiche:

Se da concubina è diventata madre, un gran passo rimane a farsi perché diventi donna, o, dirò meglio, uomo-femmina, una creatura nobilissima e delicatissima, che pensi e senta femminilmente e completi così in noi l’aspetto delle cose.

A questo punto dovremmo chiederci come è avvenuto il “gran passo”, e perché quella che è stata una battaglia progressista, conquista di diritti, di uguaglianza, critica all’autoritarismo patriarcale, viene a collocarsi oggi su posizioni conservatrici o addirittura reazionarie. Sull’esito prevedibile di una integrazione che lasciava immodificato l’ordine esistente – a partire dalla divisione sessuale del lavoro – si erano già espresse con chiarezza le analisi dei primi gruppi femministi, alla fine degli anni sessanta. Poco dopo, il terremoto prodotto dalla società dei consumi, dalla pubblicità, dall’istruzione e dagli spostamenti di massa verso le città, avrebbe fatto saltare i confini tra privato e pubblico, costretto la politica a ripensarsi partendo dal suo atto fondativo.

Con la comparsa sulla scena pubblica di soggetti “imprevisti” – le donne, i giovani – e con il dilagare di una “dissidenza” che spingeva l’agire politico “alle radici dell’umano”, era chiaro che tutte le istituzioni su cui si erano retti fino allora i concetti di democrazia, uguaglianza, modernità, sarebbero andate incontro a un declino inarrestabile. Dietro la crisi del volto autoritario, patriarcale, del potere veniva affiorando – come scrisse lucidamente Elvio Fachinelli – il fantasma di una madre “saziante e divorante insieme”, che offre cibo in cambio di “dipendenza totale”, “perdita di sé come progetto e desiderio”.

Il ritorno del rimosso

L’antipolitica, come ritorno del rimosso secolare su cui l’uomo aveva costruito una comunità di simili, libera dai vincoli che comporta la conservazione della vita, non poteva che avere la figura, reale o immaginaria, di tutto ciò che è stato identificato con il femminile: emozioni, sentimenti, donatività, dipendenza, sogni, salvezza e dannazione, idealità e concretezza, amore e violenza. In altre parole: le viscere della storia, esperienze essenziali dell’umano costrette a rimanere dentro l’immobilità delle leggi naturali, o a comparire sotto travestimenti goffi e sotterfugi.

Lo slogan “il personale è politico”, che prefigurava un’uscita radicale da tutti i dualismi (maschile/femminile, biologia/storia, materia/spirito, individuo/società eccetera) e la ricerca di nessi, che ci sono sempre stati tra un polo e l’altro, è stato rapidamente soppiantato dal magma indistinto dentro il quale nuotano oggi la cultura e la politica, e da cui emergono minacciosi, come la punta di un iceberg, sessismo, razzismo, forme barbariche di violenza, tentazioni demagogiche e autoritarie.

La strada indicata dal femminismo degli anni settanta, come liberazione e ricerca di autonomia da modelli interiorizzati, è ancora lunga, e l’emancipazione delle donne così come in gran parte si presenta oggi – “emancipazione del femminile in quanto tale” – con tutti i suoi retaggi antichi, non l’ha resa sicuramente più percorribile.

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