Nel retro di un grande magazzino agricolo, tra bancali carichi, muletti in movimento e cassette vuote accatastate contro le pareti, Carmine ci riceve in un piccolo ufficio dalle pareti spoglie, illuminato da un neon freddo (tutti i nomi dei produttori agricoli in questo articolo sono stati cambiati, e gli indizi che potessero farli identificare cancellati). È il direttore operativo di un gruppo che produce e commercializza ortofrutta. Mentre parliamo, apre un cassetto e ne estrae un grosso faldone, pieno di carte e contratti.

“Qui dentro c’è l’accordo quadro che abbiamo firmato con una grande catena della distribuzione”, dice mentre sfoglia rapidamente le pagine, come se conoscesse a memoria ogni virgola di quelle clausole. Si ferma su una riga evidenziata in giallo: “Vedi? Sconto in fattura del 10 per cento. È nero su bianco”.

Lo dice con un tono che oscilla tra il rassegnato e il lucido. Quella cifra, spiega, è il ristorno: una quota del fatturato che i fornitori agricoli devono restituire alla fine di ogni anno alle insegne della grande distribuzione organizzata (Gdo). Ufficialmente viene giustificato come contributo per volantini, pubblicità, supporto alla logistica o all’apertura di nuovi punti vendita. Ma per chi lavora nel settore, il significato è un altro, molto più crudo : “Quel dieci per cento è il tributo da pagare per lavorare con loro. Per avere spazio sugli scaffali. Se non lo accetti, resti fuori”.

Non è un’eccezione, ma una regola consolidata, che tutti conoscono e nessuno denuncia apertamente. “In media si tratta del 10 per cento, ma ci sono catene che chiedono anche il 12, il 13, fino al 14 per cento. Dipende dalla tua forza negoziale”.

Il ristorno è il margine di guadagno occulto che la Gdo trattiene a fine stagione. E non è che la punta dell’iceberg. Quello che ci mostra Carmine è il volto nascosto del rapporto tra la grande distribuzione e chi lavora la terra. Un sistema opaco, fatto di sconti imposti, percentuali di scarto decise unilateralmente, contrattazioni digitali al ribasso , consegne a orari impossibili e verifiche pressanti che rischiano di rimandare indietro intere partite di merce per motivi insignificanti .

Il risultato è che le aziende agricole sono allo stremo: i margini di guadagno si assottigliano, i costi aumentano, e in molte zone – anche in quelle dove da sempre si vive di agricoltura – le imprese cominciano a chiudere. Questa inchiesta nasce da mesi di lavoro, decine di interviste raccolte in tutta la pianura padana, soprattutto nel grande distretto ortofrutticolo dell’Emilia-Romagna e del Veneto, in cui ci sono aziende produttrici e cooperative che comprano i prodotti anche da altre parti d’Italia e siglano i contratti con le insegne della distribuzione.

Oggi, in quelle terre un tempo floride, il clima è cambiato. Non solo per le condizioni meteo ormai estreme, ma anche per i conti che non tornano. Alcuni giovani hanno rinunciato a proseguire l’attività delle aziende di famiglia. Altri resistono, ma spesso si trovano davanti a un bivio. “Certe volte ti chiedi se non sia meglio lasciare i frutti sull’albero piuttosto che raccoglierli e rimetterci ”, confida un produttore con quarant’anni sui campi alle spalle.

Tutti parlano sottovoce. Tutti chiedono l’anonimato. Intervistare, in questo contesto, significa prima di tutto ascoltare e rassicurare. La riservatezza è una condizione necessaria. Non è solo paura: è una questione di sopravvivenza. In un sistema dove una semplice email può far perdere un contratto, sollevare troppo la testa equivale a sparire dai giochi.

Gli extra-profitti strutturali

Dietro le cassette di pesche e zucchine perfette, dietro gli scaffali ordinati dei supermercati, si nasconde una realtà fatta di trattative sbilanciate, compromessi imposti, margini tagliati, in cui chi lavora la terra spesso è l’ultimo anello di una catena che distribuisce ricchezza solo verso l’alto.

Di questa contrattazione serrata e a volte spietata non beneficiano neanche i consumatori. Perché il cosiddetto ristorno non va a loro vantaggio. Il prezzo a cui si vende la merce nei supermercati è costruito su un listino nominale, non su quello scontato che il produttore è costretto ad applicare. Chi fa la spesa, insomma, paga come se la distribuzione non avesse ottenuto alcuno sconto. E così il cerchio si chiude. Il produttore, già stremato da costi crescenti e richieste asfissianti, accetta lo sconto pur di non essere escluso dal sistema. Il consumatore, ignaro di queste dinamiche, continua a pagare il prezzo pieno. E in cima la Gdo trattiene un utile netto, che molti nel settore non esitano a definire un “extra-profitto strutturale”, un guadagno sistematico costruito su uno squilibrio di potere.

La vista aerea delle cassette utilizzate per il trasporto della frutta in Emilia-Romagna, giugno 2025. (Michele Lapini)

“È un sistema che crea valore solo verso l’alto”, dice Carmine, chiudendo il faldone. “La parte agricola è diventata un’anomalia contabile, un fornitore sottopagato e sempre sotto pressione. Ma finché la frutta arriva bella sugli scaffali, nessuno si fa domande”.

Il gruppo che dirige Carmine realizza con la Gdo un volume d’affari a sei cifre. Applicando il 10 per cento di ristorno e sommandolo a quello pagato dalle altre migliaia di fornitori, una montagna di soldi passa ogni anno dalle tasche dei produttori a quelle della distribuzione.

Non si tratta di una deviazione marginale o di una strategia commerciale aggressiva messa in atto solo dalle catene più spregiudicate. La “tassa d’ingresso” al banco della grande distribuzione è una regola generalizzata, accettata a forza da tutti i produttori intervistati . C’è in tutti i contratti che abbiamo avuto modo di vedere: da quelli delle catene discount come Eurospin o Md a quelli di marchi tradizionali come Conad e Carrefour.

“Lo sconto non si discute”, confermano tutti gli operatori. “Al massimo si riesce a ridurlo di uno o due punti percentuali, ma tutte le insegne lo pretendono”, sottolinea Carmine. “Noi dobbiamo sempre considerare nei nostri conti quel 10 per cento che alla fine dell’anno andrà restituito. E i conti non sempre tornano”

A conferma delle sue parole arriva la fotografia dell’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare (Ismea), l’ente pubblico che si occupa di monitorare i prezzi dei prodotti agricoli. Secondo un rapporto recente, su cento euro spesi dai consumatori, solo 7 finiscono effettivamente nelle mani degli agricoltori come utile netto. “La logistica e la distribuzione trattengono oggi la quota più alta del valore finale del prodotto”, scrive Ismea. “La fase agricola, invece, continua a essere penalizzata”.

Proprio per riequilibrare questa distorsione, nel 2019 l’Unione europea ha varato una direttiva contro le pratiche commerciali sleali nel settore agroalimentare, introducendo due liste: una nera, che vieta in modo assoluto determinati comportamenti, e una grigia, che ne consente alcuni solo se formalizzati per iscritto.

Tra le pratiche sempre vietate ci sono la cancellazione all’ultimo minuto di ordini di prodotti deperibili o la modifica unilaterale dei contratti. Ma molte delle richieste più comuni della Gdo rientrano nella lista grigia: sono legali se formalizzate, ed è proprio lì che il meccanismo continua a funzionare come prima.

Nel 2021, l’Italia ha recepito la direttiva europea con la legge 198, andando perfino oltre: ha vietato le aste elettroniche al doppio ribasso, la vendita sottocosto e ha affidato all’Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari (Icqrf), un organismo del ministero dell’agricoltura, la vigilanza sul rispetto delle norme, con la possibilità di ricevere denunce anonime. In teoria, una svolta. In pratica, un’illusione.

“Il diavolo si nasconde nei dettagli”, sottolinea il responsabile di un altro gruppo ortofrutticolo. “Le pretese che ci mettono più in difficoltà, come il ristorno o le promozioni forzate, sono nella lista grigia. Quindi oggi non solo siamo costretti ad accettarle, ma dobbiamo anche firmare contratti che ne sanciscono la legittimità. È perfino peggio: stiamo autocertificando la riduzione del nostro utile”.

Un negozio di ortofrutta a Parma, giugno 2025. (Michele Lapini)

La sproporzione tra i danni subiti dal settore agricolo e l’efficacia della risposta normativa è evidente anche nei numeri. Lo sottolinea con tono severo l’avvocato Gualtiero Roveda, esperto di diritto agroalimentare: “La direttiva europea e la legge 198 che la recepisce sono il classico pannicello caldo dato al moribondo”.

Basta guardare i numeri: tra il 2023 e il 2024 le sanzioni per pratiche sleali hanno raggiunto un totale di appena 665mila euro, secondo i dati dell’Icqrf. “Una cifra insignificante ”, aggiunge il legale, “se confrontata con i danni stimati, che arrivano ad almeno 350 milioni di euro all’anno per l’intera filiera agricola e alimentare italiana”.

E così le aziende agricole restano moribonde. Cambiano produzioni e a volte chiudono. “Ogni anno centinaia di agricoltori decidono di mollare a causa dei bilanci in rosso”, sottolinea Roveda. Secondo un’indagine condotta tra gli imprenditori agricoli dalla Agri 2000 net, società di servizi all’agricoltura, 30mila aziende agricole sarebbero a rischio chiusura solo in Emilia-Romagna. La maggioranza degli intervistati ha risposto che il motivo per cui non sanno se proseguire l’attività è proprio che l’azienda rende troppo poco.

“Per spezzare questo circolo vizioso, bisognerebbe intervenire veramente sulla relazione asimmetrica tra agricoltura e distribuzione”, continua Roveda. “Chi produce è in posizione debole, frammentato, spesso con poca voce in capitolo. Chi distribuisce può permettersi di imporre condizioni capestro. E oggi lo fa con strumenti perfettamente legali”.

Nel silenzio del suo ufficio, tra faldoni e cartelline piene di documenti, Mirko – responsabile di un grande gruppo ortofrutticolo – ci accoglie con un gesto asciutto e ci mostra una tabella. È un documento semplice ma impietoso: rappresenta l’evoluzione della produzione di pesche e nettarine tra il 2006 e il 2024.

“Guarda qui”, dice, indicando i numeri. “In Emilia-Romagna abbiamo perso il 70 per cento delle superfici coltivate e il 69 per cento delle quantità prodotte. In Veneto va anche peggio: 73 per cento in meno di superfici, 69 per cento in meno di prodotto”. Poi si appoggia allo schienale, come per prendere fiato. “È stata un’ecatombe silenziosa. E la ragione è una sola: non siamo riusciti a ottenere prezzi adeguati. Alla fine, molti hanno espiantato perché non ci stavano dentro”.

Quindi prende un foglio bianco, e ci disegna sopra una specie di conto economico a mano libera. “Mettiamo che al supermercato una pesca si venda a due euro al chilo. Io che la produco, a quel punto, devo fissare un prezzo al distributore di un euro al chilo. Ma quell’euro è l’incasso lordo, da cui devo togliere tutto: il trasporto, la lavorazione, il confezionamento. E anche il ristorno obbligatorio del 10 per cento chiesto dalla Gdo”. A quel punto si ferma, abbassa lo sguardo. “Alla fine della catena, quando va bene, all’agricoltore restano trenta centesimi. Su due euro”. Infine aggiunge, quasi tra sé: “E con quei trenta centesimi dovremmo mandare avanti un’azienda agricola”.

Quando compriamo una pesca, una lattuga, un grappolo d’uva al supermercato, difficilmente ci chiediamo da dove arriva, chi l’ha coltivata, raccolta, selezionata e con quale guadagno. La filiera agroalimentare è lunga e frammentata, fatta di passaggi invisibili ma determinanti.

Il prodotto parte dal campo e arriva, nella maggior parte dei casi, a una cooperativa o a un’organizzazione di produttori (Op). Qui viene confezionato, selezionato per pezzatura e qualità, e infine offerto alla grande distribuzione. È la cooperativa o l’Op che si siede al tavolo delle trattative con la Gdo.

“Le trattative si fanno online e a volte si aggiustano al telefono”, racconta Guido, responsabile di una grande cooperativa emiliana. “Ci sono più livelli: prima si fa con l’insegna nazionale, poi può succedere che la trattativa sia riaperta a livello regionale. È un continuo rinegoziare”. I listini di norma sono settimanali ma possono anche cambiare tre volte alla settimana, in base alla stagionalità o alla specifica referenza. “Il prezzo lo fa il mercato”, aggiunge. “Ma in questo mercato, chi vende è quasi sempre in posizione di debolezza. Soprattutto quando si tratta di prodotti freschi, che si rovinano rapidamente. Chi ha il potere di rifiutare, ha anche il potere di dettare le condizioni”.

Il “mercato”, poi, va inteso in senso globale. Perché i supermercati italiani non comprano solo in Italia. “Può succedere che ci chiamino e ci dicano che il prodotto spagnolo costa meno. O che i greci stanno offrendo una partita a un prezzo più basso. In quel momento, il messaggio è chiaro: o accetti quelle condizioni o resti fuori dagli scaffali ”. È una forma sottile ma continua di pressione, che mina alla base il principio di reciprocità che dovrebbe regolare le relazioni commerciali.

Concorrenza sleale su scala europea

In alcuni casi, il gioco si fa ancora più complicato . Si crea una forma di concorrenza sleale internazionale, lecita sul piano giuridico, ma devastante sul piano economico e sociale.

“Può succedere che un’insegna italiana chiami un fornitore spagnolo per partecipare a una promozione sulle pesche. Lo spagnolo accetta volentieri, perché così riesce a smaltire una fetta più grande della produzione. E l’aumento della domanda in Italia gli consente di alzare il prezzo sui mercati tedeschi o francesi. Il suo prezzo in Italia, invece, scende”, racconta ancora Mirko. Risultato? Il produttore italiano, che in teoria dovrebbe essere favorito nel mercato domestico, si ritrova fuori gioco. Oppure è costretto ad adeguarsi a prezzi ribassati, che non coprono nemmeno i costi di produzione.

Se i robot raccolgono i fiori e i frutti
Nei Paesi Bassi le aziende agricole fanno sempre più fatica a trovare manodopera per il lavoro duro del raccolto. Per questo hanno deciso di investire nelle macchine

“È tutto perfettamente legale, anche se profondamente immorale”, aggiunge, mostrando la foto di un banco della frutta dell’Eurospin in cui le pesche spagnole sono vendute a 1,69 al chilo, esattamente la metà del prodotto italiano in mostra nello stesso supermercato. “La filiera è diventata un campo di battaglia europeo, ma senza regole condivise. Non esistono limiti all’approvvigionamento transfrontaliero né strumenti di tutela reale per chi produce”.

Così, sotto la superficie rassicurante della frutta lucida esposta sui banchi, si nasconde una guerra silenziosa, fatta di pressioni, ricatti impliciti, trattative disuguali. E chi coltiva il cibo che mangiamo è spesso il soggetto più debole di una catena sempre più lunga, complessa e opaca.

“La disparità sta nei numeri. I produttori che vendono ortofrutta alla Gdo sono settemila. Le insegne della distribuzione sono venticinque . Anche noi abbiamo le nostre responsabilità”, conclude Mirko. “Se fossimo più capaci di fare squadra, di aggregarci davvero, avremmo senz’altro maggior potere contrattuale”.

Ma l’eccessiva frammentazione non è solo a monte. Anche la distribuzione ne soffre, sia pure in modo diverso. “C’è un eccesso di punti vendita. Secondo me, almeno tremila supermercati dovrebbero chiudere”, afferma senza giri di parole Mario Gasbarrino, amministratore delegato del gruppo Decò e con una lunga esperienza ai vertici della Gdo.

Gasbarrino non cerca scorciatoie. Riconosce le distorsioni della filiera, i meccanismi discutibili, le pressioni ricorrenti. I ristorni, spiega, “sono sempre esistiti” nelle dinamiche del mercato, ma paradossalmente stanno diminuendo ovunque, tranne che sull’ortofrutta, dove continuano a salire. E ammette che spesso le trattative sono “muscolari”. Ma la questione, dice, è ancora più ampia.

“Siamo in una crisi profonda. I consumi calano, i salari sono fermi. E, come si diceva un tempo, se il cavallo non beve non si regge”.

Una fotografia brutale, che però non vale per tutti allo stesso modo. Alcune insegne della Gdo annaspano: il gruppo Carrefour, dopo anni in rosso, valuta il disimpegno dall’Italia. L’Auchan se n’è andata nel 2019. Ma nel complesso, il settore tiene, anzi cresce. Lo conferma un’analisi dell’Area Studi Mediobanca: tra il 2019 e il 2023, i principali gruppi distributivi hanno registrato utili miliardari. L’Eurospin guida la classifica con 1,56 miliardi di euro, seguito dal gruppo VéGé (1,33 miliardi) e dal Selex (1,28 miliardi).

A questo punto, la domanda è inevitabile: quanta parte di questi utili deriva dalle cosiddette “trattative muscolari” con i fornitori? Quanti profitti extra sono stati strappati a una filiera agricola sempre più in affanno, soprattutto per i prodotti deperibili?

Gasbarrino, sul punto, è netto: “L’ortofrutta è il settore più critico. È un mondo alla rovescia. Si pianificano promozioni con due mesi di anticipo, quando ancora non sai se ci sarà la merce. È assurdo. Il fresco, per sua natura, non dovrebbe seguire delle logiche promozionali”.

Un’idea alla rovescia

“Le promozioni sono una disgrazia”, conferma dall’altra parte della barricata Walter, agricoltore romagnolo con trent’anni di esperienza alle spalle e un’importante azienda di frutta della zona. Le offerte, spiega, sono diventate una delle trappole più insidiose della filiera. “Non si fanno più per smaltire la quantità di prodotto in eccesso, come succedeva una volta. Ora le decidono i supermercati, in base a logiche di marketing, non secondo criteri agricoli. Servono solo ad attirare clienti nel punto vendita. E a pagarle siamo noi”.

L’idea alla base delle promozioni si è rovesciata: da strumento di sostegno al produttore che ha un surplus da smaltire, sono diventate una leva commerciale imposta dalla distribuzione. “Se l’insegna decide che le albicocche devono andare in offerta a 1,29 al chilo, allora tu devi adeguarti. E spesso ti trovi a vendere sotto costo. Nessuno ti chiede se puoi permettertelo o ci rimetti. Ti chiedono solo se puoi consegnare il prodotto. E la risposta deve essere sì”.

Nel grande magazzino della sua azienda, dove è appena partita la stagione della frutta estiva, Walter si muove tra macchinari e linee automatiche. I frutti vengono calibrati singolarmente, passano su rulli che ne misurano il diametro al millimetro. “Ogni catena ha il suo disciplinare: ci sono quelle che vogliono solo pesche da 65 a 72 millimetri. E se ne hai da 64 o 73, non vanno bene. Il mercato non le vuole. Anche se sono perfette, anche se hanno lo stesso sapore”.

Dopo la calibrazione, i frutti vengono selezionati manualmente. Su una linea scorrevole, alcune operaie li osservano a uno a uno: basta una piccola macchia, una screpolatura, e quel frutto finisce fuori dalla catena. “Si chiama scarto commerciale, ma in molti casi è ancora frutta buona. E noi dobbiamo trovare come piazzarla altrove, magari nell’industria, a prezzi ridicoli. Oppure buttarla”.

Ma il paradosso, dice Walter, arriva dopo, nella fase del confezionamento. “Non possiamo nemmeno scegliere con chi lavorare. Ci impongono loro le ditte da cui comprare vaschette, etichette, cartoni. Anche se costano più della media , anche se paghiamo molto di più di quanto ci costerebbe fare da noi . È tutto imposto. E sappiamo che una quota di quei costi finisce nelle casse dell’insegna, come una specie di percentuale garantita”.

Si tratta di una forma di controllo sottile, ma penetrante. “Siamo diventati confezionatori per conto terzi. Ci danno le specifiche, ci impongono i materiali, ci dettano i tempi. La nostra autonomia si ferma al frutteto”.

Eppure, sottolinea, tutto questo avviene nel silenzio totale: “Chi fa la spesa non lo sa. Pensa di trovare un’offerta. Non immagina che dietro quella vaschetta da 1,29 euro ci sono ore di lavoro, chili di frutta scartata, materiali imposti, ricarichi occulti. E un’agricoltura che fatica sempre di più a reggersi”.

Così i produttori continuano a subire le condizioni poste dalla grande distribuzione, sperando che le circostanze del mercato giochino a loro favore. “Se per un caso fortuito capita che c’è scarsità di prodotto, i prezzi salgono. A quel punto anche noi ci adattiamo: affondiamo il coltello nel burro. Ma il coltello dalla parte del manico lo abbiamo, se va bene, una settimana all’anno”, dice Walter.

I signori del cibo: chi decide cosa arriva sulla nostra tavola
“Pochi grandi gruppi controllano la produzione, la commercializzazione e la distribuzione di quello che mangiamo”. Stefano Liberti, autore del libro I signori del cibo, ha seguito la filiera di quattro prodotti per scoprire come si sta trasformando il mercato alimentare globale.
 

Altra provincia, stesso copione. Siamo nel Bolognese, tra serre e capannoni industriali convertiti alla logistica agricola. Corrado coltiva ortaggi da tre generazioni. Il suo magazzino è in piena attività : si stanno preparando delle pedane di lattuga da caricare su un camion diretto alla piattaforma di una grande insegna della distribuzione. “Il 90 per cento del mio fatturato dipende dalla Gdo”, dice, con tono neutro, come se fosse un dato di fatto, non una specie di condanna.

Anche per lui il problema principale è l’asimmetria nei rapporti di forza: “Quando firmiamo un accordo, per noi è legge. Per loro, un’opzione reversibile”. Corrado racconta un episodio recente: un contratto chiuso dalla sua cooperativa con un grande gruppo nazionale per dieci pedane di melanzane, prezzo pattuito 60 centesimi al chilo. Tutto regolare. Fino a quando il buyer, il responsabile degli acquisti del supermercato, non ha trovato un altro fornitore disposto a vendere a 50. “A quel punto ha deciso che non gli serviva più il mio prodotto”, racconta Corrado.

E il contratto? “Mi ha rimandato indietro sette pedane, con la motivazione della non conformità. Una scusa. La merce era perfetta, lo sapevamo tutti. Ma loro possono permetterselo. Io no”.

Un comportamento così rientrerebbe tra le pratiche commerciali da “lista nera”, cioè quelle vietate dalla legge 198 che ha accolto la direttiva europea sulle pratiche sleali. In teoria, Corrado avrebbe potuto denunciare tutto all’Icqrf, l’ispettorato centrale della qualità. Ma non lo ha fatto. E non ci ha pensato neanche lontanamente.

“Ti ricordi Peron?”, chiede, incrociando le braccia sul petto. Fortunato Peron, storico venditore di pere del cesenate, qualche anno fa denunciò la Coop Italia all’antitrust per violazione contrattuale. Ha vinto. Ma da allora, nessuno lo ha più chiamato: “È finito fuori dal giro. Cancellato. Il nostro settore ha la memoria lunga e la pelle sottile. Se ti metti contro la distribuzione, sei finito”.

Il paradosso della filiera agroalimentare è tutto qui: chi coltiva, chi raccoglie con le mani i frutti della terra, è anche chi guadagna di meno. In fondo alla catena, i produttori agricoli sono diventati l’anello debole, schiacciati tra i costi in salita e i prezzi imposti dall’alto. E così, il sistema alimenta una guerra tra ultimi: le grandi cooperative e le organizzazioni dei produttori, pressate dalla distribuzione, finiscono per scaricare il peso sui singoli agricoltori, soprattutto quelli più piccoli, senza voce né potere contrattuale. I ristorni, i costi extra, i mancati guadagni: tutto arriva a valle, dove non resta più spazio per pianificare nulla. Anche perché i conti, nella maggior parte dei casi, si fanno alla fine dell’anno. Quando ormai è tardi.

Ragioniere del disastro

Siamo nel mezzo della Romagna: l’odore acre dell’erba tagliata si mescola a quello più dolce delle pesche appena raccolte. Andrea è un giovane agricoltore, poco più che trentenne. Ha studiato agraria, ha scelto di restare in azienda con il padre: “Non volevo fare il tecnico, volevo fare il contadino. Ma oggi, più che un contadino, sono un ragioniere del disastro”.

Parla calmo, con voce ferma. Senza lamentarsi. Come chi ha già capito da tempo che le regole del gioco non le detta lui. “Il problema è sempre quello: il prezzo. Ogni settimana la cooperativa ci manda il listino. E noi ci adeguiamo. Non c’è alternativa. Che faccio, non raccolgo? La frutta matura, e se non la prendi, la butti. E buttarla fa ancora più male”.

Della grande distribuzione, lui conosce solo il riflesso. “Io un buyer non l’ho mai visto. Non so nemmeno che faccia abbia. Noi portiamo la merce, loro ci dicono se va bene. E poi aspettiamo il bonifico. E il ristorno, che arriva dopo, come una tassa posticipata. A volte toglie l’unico margine che pensavi di avere. Non è più una sorpresa, è una condanna annunciata”.

Quando chiedo ad Andrea se ha mai pensato di smettere, ci pensa un attimo: “Non ho mai pensato di mollare, ma ho smesso di illudermi. Mio nonno diceva che la terra ti dà da mangiare. Oggi ti dà solo da sopravvivere. E se non hai un altro reddito in famiglia, o un po’ di fortuna, finisci sotto”.

Poi esce fuori una parola che si sente ripetere spesso tra i produttori: dignità. Non parlano quasi mai di profitto, di crescita, di margine operativo. Parlano di restare a galla, di poter lavorare senza subire ogni giorno una nuova imposizione. “Chiediamo solo di essere trattati come una parte della filiera, non come i suoi servi”, dice Andrea. “Perché se salta chi produce, salta tutto”.

Stefano Liberti è borsista del Bertha Challenge Fellow 2025.

Questo articolo è il secondo di un’indagine sulla crisi agricola in Pianura Padana coordinata da Internazionale con il supporto della borsa di studio Bertha Challenge. La versione inglese dell’articolo è pubblicata dal Green European Journal.

Il primo articolo della serie si può leggere qui

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