Arriva nelle sale un piccolo ma notevole film, un gioiello di leggerezza e profondità insieme, divertente e affascinante, un’opera d’autore perfetta per l’estate. El jockey, secondo lungometraggio dell’argentino Luis Ortega, presentato all’ultima edizione della Mostra del cinema di Venezia, sembrava l’unico film del Concorso che per ragioni diverse non sarebbe mai uscito in sala, pur meritandolo. Invece eccolo, con il regista venuto a presentarlo in Italia.

La trama è semplice. Remo è un fantino di successo ricattato per i suoi debiti da Sirena, un boss della malavita, proprio mentre la sua fidanzata è incinta. Un giorno, dopo un incidente, scompare dall’ospedale e vaga per la città inseguito dagli uomini del boss.

In questa cornice essenziale si articola un film transgender inteso in senso ampio. Perché transita tra i generi e i richiami a grandi autori del cinema, creando senso e poesia, interrogazione e fascino, invece che suscitare un fastidioso manierismo citazionista come si potrebbe temere. Ma anche perché riguarda l’identità di genere. Più esattamente qui si transita tra i generi come un flusso, un flusso ipnotico che in definitiva è tipico della concezione surrealista poiché per il movimento surrealista il cinema, in quanto flusso di immagini, era potenzialmente uno strumento principe per rivelare quello che nasconde, quel che cova il nostro inconscio. E non vi è dubbio che il film di Ortega abbia una matrice surrealista.

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Sospensione della temporalità, inquadrature fisse sui personaggi immobili, o appena in movimento, silenzi prolungati, un gioco parallelo ed elegante del movimento coreografico e di una comicità sia del corpo sia delle situazioni vicino alla pantomima o alla cosiddetta comicità slapstick tipica del cinema muto. Fin dalle primissime battute lo stile è evidente e Ortega dimostra una mano personale e felice, tutto è perfettamente calibrato, la brevità del film contribuisce alla sensazione di un’opera che scivola con levità piacevole. Il bello è che riesce a essere personale pur con dei richiami evidenti, più o meno marcati, ad alcuni grandi autori.

Da subito si coglie il richiamo al cinema di Aki Kaurismäki, evidente anche per lo spettatore che non presta attenzione al fatto che il film si avvale della collaborazione del direttore della fotografia del regista finlandese, il grande Timo Salminen. Ma al contrario di Kaurismäki, Ortega inserisce anche tanta musica, fin dall’inizio: musica diversa, dolce, suadente, della tradizione argentina, oppure più dura, in stile rock. Anch’essa sempre instabile e mutevole fin nei titoli di coda. Al pari del protagonista, il cui nome-titolo in fondo ne è il manifesto: “el” è in spagnolo, “jockey” è in inglese, anche se questa definizione di fantino è diffusa in spagnolo, senza contare che il confine tra jockey e disc jockey è labile.

Instabile e mutevole come quando Remo fugge dall’ospedale con un’enorme ridicola fasciatura bianca sulla testa, che lo rende femminile quasi quanto l’enorme pelliccia rubata insieme a una borsetta da donna. E diventa ancora più femminile truccandosi, in uno strano amalgama con il sangue delle sue ferite, mentre vaga nella notte per le vie di Buenos Aires. Richiamando in queste sequenze un maestro del cinema surrealista come Alejandro Jodorowsky, soprattutto quello autobiografico degli ultimi film (La danza della realtà, del 2013, e Poesia senza fine, del 2016), anche se certi elementi cristologici rimandano un po’ a tutto il cinema del regista cileno trapiantato a Parigi.

Sorta di Buster Keaton trasognato finito per un cortocircuito spazio-temporale nel mondo di oggi, Remo diventa sempre più donna, fino a fare la parrucchiera con indubbia classe ed eleganza, quasi irriconoscibile. Tutto mentre la fidanzata fa giochi erotici sempre più frequenti con un’altra donna. Ma se la schizofrenia di Remo è dolce e quasi incantata, non può non richiamare quella più dura e angosciata di un altro surrealista del cinema, David Lynch, quello del dittico Mulholland drive (2001) e Strade perdute (1997), quest’ultimo preannunciato da strane interferenze, per così dire, che giungono all’orecchio di uno dei personaggi e alla fine esplicitamente citato nella strada notturna con la segnaletica gialla sull’asfalto, vero e proprio leit motiv visivo del film. Ma soprattutto è ripreso il tema della schizofrenia: se in Strade perdute il protagonista da uomo maturo risvegliandosi in carcere si muta in un giovane sconosciuto, Remo si muta completamente in donna e poi si risveglia di nuovo uomo, come prima.

Questi rimandi sono come dei sapienti tocchi pittorici e diventano corpo di un film autonomo, in cui si compie la traiettoria circolare di esplorazione del proprio sé attraverso la ricerca dell’amore da parte di un personaggio endemicamente camaleonte, semplicemente perché in lui si riflette, si specchia, il caos strutturale della vita, della realtà.

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