Tra le tante visioni, venerdì scorso è stato straordinario il colpo di coda, in positivo, del festival Il cinema ritrovato di Bologna. In piazza Maggiore sono state proiettate tre ore di cinema travolgente, quelle di Sholay. Director’s cut (1975) del cineasta indiano Ramesh Sippy. Un film d’azione o un ludico, quanto evocativo, western spaghetti indiano? O una commedia-farsa, con parentele con certa commedia all’italiana? Oppure ancora un film musicale? A ogni modo un oggetto cinematografico davvero inclassificabile riproposto coraggiosamente malgrado la lunghezza e benché fosse sconosciuto ai più.
Restaurato dopo diversi anni di lavoro, con due scene tagliate che sono state rimontate, insieme all’incredibile finale, trascinante quanto surrealista, quasi degno di un film di Alejandro Jodorowsky, in particolare di El topo e La montagna sacra. Finale che la commissione addetta alla censura aveva fatto tagliare (allora l’India era precipitata nello stato d’emergenza).
La storia è quella della vendetta estrema di un poliziotto in pensione la cui intera famiglia è stata massacrata da un criminale, crudele se non sadico. L’ex poliziotto assume altri due banditi – allegri, scanzonati e non privi di cuore – per eliminare chi gli ha provocato un torto così immenso. Già nel tema si vede l’anima anarcoide del film, sanguinolento quanto umanista.
Qui tutto è sottosopra, ma perfettamente amalgamato, malgrado la disparità dei registri: quanta modernità e quanta freschezza ci è stata trasmessa durante la visione di questo gioiello seduti in mezzo a diversi esponenti della comunità indiana, i più festosi tra l’ampio pubblico.
Immergersi in maniera massiccia ed articolata nel cinema del passato è dunque tutt’altro che passatista, e il festival bolognese giunto alla 39ª edizione – mentre si preparano i fuochi d’artificio per la quarantesima – ne è il manifesto, probabilmente più di qualsiasi altro che si occupa del patrimonio cinematografico. Forse questo spiega perché da anni studiosi, critici e giornalisti vengano da ogni parte del mondo insieme a un pubblico in crescita, per il quale gli spazi spesso non sembrano bastare, nonostante dalla scorsa edizione ci sia una sala in più, il Modernissimo.
Queste visioni, sempre interessanti, spesso intense e molto profonde, consentono di mettere in prospettiva sia il senso del cinema nel nuovo millennio sia il futuro della società, tanto più in un momento in cui la nozione di futuro sembra più volatile che mai.
E questo è particolarmente vero anche nel caso di Sciopero! (1924-1925), lungometraggio d’esordio di Sergej Ėjzenštejn che rappresenta la nascita dell’avanguardia cinematografica in Unione Sovietica.
Si potrebbe dubitare che un film del genere, sulla ribellione al lavoro come forma moderna di schiavitù, preludio alla rivoluzione d’ottobre del 1917, potesse funzionare così bene sul grande schermo di piazza Maggiore e raggiungere la dimensione del sublime, così propria del cinema muto (per Godard il cinema di quel periodo lo era tutto). In queste ultime edizioni dopo il covid è stata raggiunta, non solo tra le proiezioni in piazza, da Stella Dallas di Henry King, che nel 2023 ha incantato anche tanti ragazzi.
A me ha dato quasi la sensazione di fluttuare nell’etere. È stata una simbiosi totale con l’orchestra, un evento memorabile, ancora adesso un pensiero ricorrente nella mente, anche se sono state grandi le sensazioni provate in queste ultime edizioni con altre opere fondamentali del muto come Femmine folli di Erich von Stroheim, Il vento di Victor Sjöström, Il ventaglio di lady Windermere di Ernst Lubitsch, Dans la nuit di Charles Vanel, film molto originale e coraggioso che andrebbe riproposto ancora e vicino per tematica a Sciopero!, con al centro le disavventure di un minatore.
Ma era tutt’altro che evidente raggiungere una forma di sublime non con il melodramma ma con un film che tratta di eventi del quotidiano, di vita prosaica – anche se storicamente molto drammatici – con tanta glaciale meccanica mista ad altrettanta meccanica violenza, quella dei capitalisti che vediamo tramare nei loro giganteschi salotti. Ma Ėjzenštejn, nelle sei parti del film, contrappone a questa meccanica metallica e inumana quella di un magistrale crescendo visivo, metaforicamente sia musicale sia ideale. Tornano a più riprese fotogrammi frenetici, inquadrature distorte e super compresse di una rabbia inseparabile dalla tensione ideale spinta all’estremo in mezzo a un ambiente fatto con il ferro prima ancora che con i mattoni. E il lavoro dei musicisti sul palco è stato raffinatissimo nel restituire la tensione spasmodica di esseri umani sfruttati fino all’inverosimile.
Come ha detto presentando il film Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna e cofondatore nel 1986 del festival, in Sciopero! “non c’è spazio per analizzare né il contesto storico né le cause della rivolta. La rivoluzione è come un’eruzione, la repressione è solo crudeltà”.
Analizzavano la complessità delle relazioni umane, e non solo dei sentimenti, in un determinato contesto sociale, molti altri film diversissimi sotto tutti gli aspetti. Come nel caso di The strange love of Martha Ivers (1946) unico noir del pacifista di sinistra Lewis Milestone, noto per la sua serie di film sulla seconda guerra mondiale – tra cui il capolavoro Salerno, ora X (1945). Milestone è stato il regista statunitense che, dopo Hugo Fregonese e Rouben Mamoulian, è stato al centro della consueta rassegna volta a riscoprire in pieno un talentoso regista del cinema di serie b statunitense.
Martha, una ragazza della ricca aristocrazia, spinge una zia tirannica e inumana giù per le scale uccidendola e per salvarsi rende complice il suo amico Walter, figlio del suo istitutore, mentre Sam, un giovane vagabondo amico di Martha, che era entrato in casa di nascosto, fugge subito via lasciando la porta aperta. Poi il film ha uno stacco di diversi anni e ritroviamo tutti i personaggi nell’età adulta: Martha (Barbara Stanwyck) è ora la ricca e fredda manipolatrice della carriera di Walter (Kirk Douglas), divenuto nel frattempo suo marito. Sam è invece un detective, il quale, grattando la superficie delle cose, scopre che Martha e Walter hanno fatto condannare a morte un innocente per la morte della zia.
Ma sono degli esseri fragili, prima ancora che meschini, quelli messi in scena. Non è fragile solo Walter, che ha seguito gli insegnamenti paterni di restare attaccato agli Ivers in modo da trarne il massimo profitto. Lo è anche la dolce e complicata ragazza di estrazione popolare che odia il padre e di cui si innamora Sam, complicando non poco le cose. Lo è il padre di Martha, di cui vediamo solo il riflesso, nient’altro che un uomo alcolizzato, operaio morto di sfruttamento proprio in quella fabbrica che ora Martha dirige. E lo è Martha stessa, che vive nel ricordo del padre, malgrado tutto, ma la cui influenza da parte della ricca zia l’ha spinta verso un cinismo al limite della dissociazione mentale.
Il recupero della consapevolezza delle sue origini proletarie la porta a compiere un atto inatteso quanto drammatico di riabilitazione morale. C’è qualcosa di inespresso nell’infanzia e nell’adolescenza di Martha. Allo stesso tempo affascina come a un certo punto non si capisca chi sia il manipolatore: se l’istitutore nei confronti di Martha, se Martha di Walter, se Martha o la ragazza di Sam verso quest’ultimo.
Sono esseri che da forti diventano fragili e poi di nuovo forti in ambienti continuamente mutevoli quelli di Il salario della paura (1977) di William Friedkin – presentato nella sezione Ritrovati e restaurati, remake di un classico del noir francese, Vite vendute di Henri-Georges Clouzot – incrocio visionario tra film d’avventura e thriller politico, dove quattro uomini diversissimi tra loro (uno specialista delle speculazioni finanziarie, un terrorista palestinese, un criminale di New York, un killer messicano) sono obbligati a fuggire in una paese dell’America Centrale in cui la legge non esiste e si ritrovano a lavorare insieme per una missione impossibile. Oppure Sterne (1959) di Konrad Wolf, primo film tedesco sulla resistenza, dai bianchi e neri trancianti, in cui un nazista disilluso di un campo di prigionia in Bulgaria trova la forza nella sua debolezza e, specularmente, nella forza serena di una ragazza ebrea destinata alla deportazione, di cui si innamora finendo per aiutare i partigiani bulgari.
O ancora gli amici in gita nell’India profonda di uno dei capolavori di Satyajit Ray, tra i più grandi cineasti della storia del cinema. Aranyer din ratri (1970, nella sezione Ritrovati e restaurati) racconta quattro professionisti di Calcutta dalle visioni apparentemente moderne, che in realtà hanno tutti un rapporto irrisolto e immaturo verso le donne, che li smaschereranno in “uno scontro/trattativa tra caste e sessi. Urbani e rurali”.
E poi ancora le ragazze sottomesse alla cultura patriarcale nello Sri Lanka degli anni settanta di Gehenu lamai (1978, sezione Cinema libero), scritto e diretto con grande delicatezza dalla regista Sumitra Peries – ma capace allo stesso di non edulcorare nulla – e prodotto da Lester James Perries, il padre nobile del cinema d’autore di quel paese.
Da ricordare anche il capolavoro iraniano Postchi (1972, sezione Cinema libero) di Dariush Mehrjui, regista ucciso dal regime. Film modernissimo fra teatro e assurdo, racconta di un postino tiranneggiato da un proprietario terriero, con l’impotenza sessuale usata come strumento rivelatore di forza e debolezze in un contesto sociale schizofrenico, in bilico tra modernità e tradizione, entrambe ingannevoli.
Non tutti hanno la forza della Perla (Jennifer Jones) di Duello al sole (1946, sezione Ritrovati e restaurati), capolavoro di King Vidor non abbastanza conosciuto. Contesa dai due figli di un ricco ranchero, Lewis e Jackie, Perla finisce in un duello nel deserto contro il suo amato Lewis (Gregory Peck). Non appena è ferito a morte, Lewis smette di sparare e le rivela finalmente il grande amore che prova per lei. Perla, anche lei ferita, cede alla debolezza amorosa e finalmente i due trovano una fugace ma solenne pace, mentre il film, in modo del tutto inatteso, si rivela una storia di amour fou.
La storia del cinema in realtà è un solo, unico racconto.
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