Non ci si stancherà mai di ritrovare il cinema al Cinema ritrovato, il festival curato dalla Cineteca di Bologna arrivato alla sua 39ª edizione. Perché consente di capire meglio quanto ci mancherà il cinema, l’ampiezza e densità di visione che ha proposto in passato, se dovesse scomparire, se non lo proteggeremo dalla stupida logica del mercato che divora tutto, pianeta compreso, e che paradossalmente si autodivora.

In una certa misura questa forza il cinema la mantiene ancora e andrebbe difeso proteggendo le sale, cioè andando a vedere i film prima di tutto sul grande schermo.

Aiuterebbe i gestori a restare aperti e li invoglierebbe, visto che spesso sono soli nella loro caparbia volontà di tenere duro, a rinnovare le sale, come in molti casi è successo a Roma. Senza andare a cercare lontano titoli di maggiore successo e riconoscimento critico, piccoli grandi film d’autore usciti di recente come Black tea di Abderrahmane Sissako, Il quadro rubato di Pascal Bonitzer, Scomode verità di Mike Leigh, Aragoste a Manhattan di Alonso Ruizpalacios o Volveréis. Una storia d’amore quasi classica di Jonás Trueba, ma anche blockbuster come Mission: impossible. The final reckoning di Christopher Mcquarrie – la cui visione, tra le tante cose, regala la vista di sommergibili che hanno l’apparenza di enormi balene, nella loro diversità – sono tutte opere che meritano la visione al cinema. Annacquate nella programmazione televisiva e delle piattaforme, con il dilagare delle serie, rischiano di essere produzioni sempre più rare, per infine svanire del tutto.

Incontri ravvicinati del terzo tipo, Steven Spielberg, 1977


Lo spettatore può avere un grande ruolo nel prendere coscienza che il capitalismo, essendo in tutta probabilità intrinsecamente entropico, tende a divorare anche il mezzo d’espressione che, in assoluto, ha rappresentato il punto più alto di equilibrio raggiunto tra tecnologia e arte nell’era moderna della civiltà umana.

Intanto, chi va a Bologna per il festival, oltre alla presenza di tanti ospiti (Terry Gilliam, Asghar Farhadi, Jonathan Glazer, Jim Jarmusch, Brady Corbet), potrà provare il piacere esaltante di vedere capolavori o grandi film con la magia del grande schermo, come se fossero nuovi perché restaurati o in copie eccellenti, quando non ritrovati perché si credevano persi, come quest’anno Scarlet drop (1918), un’opera del lungo periodo del muto di John Ford. A piazza Maggiore, nelle serate sempre affollate, anche quando si proietta un film muto con orchestra (quest’anno Sciopero, 1924-1925, di Sergej Ejzenštejn, restaurato); nella più discreta piazzetta Pasolini, davanti alle sale della Cineteca; o nei vicini cinema Arlecchino, Jolly, Europa, senza contare il Modernissimo, riaperto due anni fa dalla Cineteca proprio a pochi passi da piazza Maggiore.

Un esempio perfetto è la visione restaurata e in 70mm di Incontri ravvicinati del terzo tipo. Director’s cut (1977) di Steven Spielberg, con cui il festival apre sabato 21 in piazza Maggiore: se della prima sceneggiatura, firmata anche da Paul Schrader, il grande regista e sceneggiatore (tra gli altri di Taxi driver di Martin Scorsese) ancora in attività, non è rimasto granché, resta però l’idea geniale di una visione spirituale, quasi mistica, degli extraterrestri. L’arte è il tramite, nella sua espressione più astratta, la musica, quasi divina secondo la concezione classica. Ma nel film a tratti è astratta anche la regia, con quei dischi volanti luminosissimi e svolazzanti sulle strade che appaiono all’improvviso dietro le curve. In attesa dei dischi volanti-cattedrali, questa è certamente una visione principe, magica.

Il caso Paradine, Alfred Hitchcock, 1947


Bisogna ricordare inoltre, nella sezione Ritrovati e restaurati, le sperimentazioni precedenti al cinema di Hollywood, anche se più strettamente tecniche, come Duello al sole (1946) di King Vidor, meraviglioso western con cui si cominciò a provare il technicolor o Artisti e modelle di Frank Tashlin (1955); e l’uso del colore in un film indiano dal grande successo come Sholay (1975) di Ramesh Sippy, che avrà l’onore della proiezione in piazza Maggiore.

E, poi, come si legge nella nota di presentazione del festival, c’è tanto cinema pop interessante, da “Arrapaho a Non si sevizia un paperino, forse uno dei migliori film sul meridione italiano, da Café flesh di Rinse Dream, geniale film di fantascienza post-atomico pornografico, ai cult della Hammer sontuosamente restaurati in digitale”. Quella britannica Hammer, lo ricordiamo, produttrice di grandi film horror che sono prima di tutto poesia pittorica, e il cui regista principe, Freddie Francis, fu poi chiamato a dirigere la fotografia di opere come Elephant man e Una storia vera di David Lynch o Il promontorio della paura di Martin Scorsese. Senza contare gli esordi restaurati di autori come Josef von Sternberg, Max Ophüls, François Truffaut, Nicolas Roeg, Bertrand Tavernier, Charles Burnett, Michael Mann, Mikio Naruse e tanti altri.

Performance, Nicolas Roeg, 1970


Proprio un cineasta fondamentale del cinema giapponese come Naruse, oltre a essere presente con il film del 1955 Nubi fluttuanti, restaurato, è al centro di una rassegna importante, che però ha selezionato non i suoi film più famosi del dopoguerra, ma quelli precedenti. Sarà quindi l’occasione per scoprire queste opere, comprese quelle del periodo muto, di un maestro del melodramma inserito nel quotidiano delle persone più comuni.

Nell’immensa cinematografia giapponese, di cui ogni anno il festival offre un focus su un regista geniale quanto poco o per niente conosciuto, e dove primeggiano personaggi femminili straordinari, questa retrospettiva è ancora più significativa, poiché proprio Naruse fu capace nei suoi film di dare centralità a degli straordinari ritratti di figure femminili, interpretati da alcune delle più grandi attrici giapponesi dell’epoca come Setsuko Hara, Yoko Tsukasa e soprattutto Hideko Takamine, musa del regista e star fin da ragazzina.

È quindi l’occasione per i giovani che giustamente amano tanto i film d’animazione di Hayao Miyazaki e Isao Takahata, i quali mettono spesso al centro dei loro film bambine e ragazze molto intelligenti, di capire le origini di questa scelta. Per diversi anni sottovalutato, Naruse è oggi messo al fianco dei più grandi del cinema del suo paese – da Ozu a Mizoguchi, a Kurosawa – e c’è quindi da scommettere che questa retrospettiva attirerà l’interesse di cinefili e storici per il suo grande respiro internazionale.

Su un altro fondamentale sperimentatore di Hollywood, Lewis Milestone, è incentrata una rassegna che ne evidenzia lo straordinario talento, un vero virtuoso capace di toccare i generi più diversi, sempre attento alle persone, pacifista, ma la cui carriera fu devastata dal maccartismo. Mentre quella dedicata a Katharine Hepburn, che ha lavorato con registi del calibro di Howard Hawks o George Cukor, mette in evidenza un’attrice femminista fuori dai canoni.

Impossibile poi non segnalare la fondamentale retrospettiva dedicata a Luigi Comencini, relegato per un certo periodo ad autore minore del cinema italiano, forse perché ha spesso raccontato i bambini. Oggi invece è sempre più considerato come uno dei grandi del nostro cinema, un vero e profondo frequentatore di tutti i generi, la cui memoria è stata rilanciata dal recente Il tempo che ci vuole di sua figlia Francesca, che, alla rovescia, racconta con finezza e coraggio il suo rapporto con il padre. Ed è proprio Francesca a curare la retrospettiva, insieme a Emiliano Morreale.

Infine, la fondamentale sezione Cinema libero, curata da Cecilia Cenciarelli, di cui parleremo nell’articolo conclusivo sul festival, dedicata al cinema “altro”. Quest’anno, tra gli altri, O regreso de Amílcar Cabral, realizzato da Sana Na N’Hada – pioniere del cinema della Guinea-Bissau, ospite del festival – e firmato con il suo collettivo militante; Gehenu Lamai della poeta del cinema singalese Sumitra Peries e due opere della nouvelle vague iraniana, Postchi e Safar, di Dariush Mehrjui e Bahram Beyzaï.

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