Nelle prime ore del 2 febbraio 1972 l’ambasciata britannica a Dublino, in Irlanda, fu incendiata. Non si trattò di un incidente. Per tutto il giorno precedente una folla enorme aveva protestato davanti alla bellissima terrazza georgiana in Marrion square. I manifestanti acclamavano i ragazzi che si arrampicavano sulle balconate, rompevano una finestra e, dopo aver versato della benzina, appiccavano il fuoco. Dalla folla era quindi partita una scarica di bombe incendiarie. La gente scandiva a gran voce lo slogan sentito durante i disordini di Watts a Los Angeles nel 1965: burn, baby, burn. La polizia non fece niente per fermare l’attacco.
All’epoca avevo 14 anni, perciò non ero lì. Alcuni dei miei amici più grandi però c’erano andati e io avrei voluto essere con loro. L’attacco era stato organizzato dai militanti dell’Irish republican army (Ira), ma la maggior parte dei comuni e pacifici cittadini irlandesi l’aveva approvato. Sembrava la cosa giusta da fare, una risposta ragionevole al massacro di 13 civili disarmati compiuto dal primo battaglione del reggimento paracadutisti dell’esercito britannico a Derry, nell’Irlanda del Nord, il 30 gennaio: la domenica di sangue (bloody sunday). Una donna alla fermata di un autobus a Dublino dichiarò all’Irish Times: “Ero profondamente indignata all’idea che i britannici lo avessero fatto e sentivo che, giusto o sbagliato che fosse, se avessimo incendiato la loro ambasciata allora avrebbero capito come ci sentivamo”.
L’indignazione non nasceva solo dall’atrocità in sé dei fatti di Derry. Era dovuta anche al modo in cui i britannici avevano mentito su quella vicenda, sostenendo che i militari britannici erano stati attaccati e si stavano proteggendo dai terroristi. L’indagine ufficiale, che in sostanza aveva ribadito questa menzogna, aveva reso evidente come lo stato britannico non avesse alcun interesse a stabilire cosa fosse accaduto, e meno che mai a punire chiunque per quello che il medico legale di Derry, il maggiore Hubert O’Neill, aveva definito “un omicidio puro e semplice”. Di fronte a questa insensibilità, bruciare l’ambasciata sembrava in effetti l’unico modo per far capire alla classe dirigente britannica quello che provava la maggioranza degli irlandesi.
Reciproca ostilità
Nel 1972, cinquant’anni dopo la creazione della repubblica d’Irlanda, i rapporti tra Regno Unito e Irlanda indipendente non potevano essere peggiori. C’erano stati altri momenti difficili, soprattutto durante la seconda guerra mondiale, quando la neutralità dell’Irlanda era apparsa agli occhi di molti britannici uno scandaloso tradimento. Dopo la domenica di sangue, però, i rapporti sembravano ulteriormente peggiorati perché il massacro era stato solo un episodio, per quanto particolarmente disastroso, di un conflitto che continuava a inasprirsi nell’Irlanda del Nord (il 1972 sarebbe stato l’anno più sanguinoso di tutto il conflitto nordirlandese, quello dei troubles). In quei mesi era quasi come se i due stati su queste isole stessero scivolando in modo incontrollabile verso una reciproca e violenta ostilità.
Eppure solo otto giorni prima della domenica di sangue era accaduta una cosa completamente diversa. Il primo ministro britannico Edward Heath e il taoiseach (il capo del governo irlandese) Jack Lynch, si erano ritrovati insieme in una sala delle cerimonie a Bruxelles per firmare ciascuno per il proprio paese il trattato d’ingresso nella Comunità economica europea. Ci sono foto dei due uomini in piedi l’uno di fianco all’altro, entrambi con un’espressione di grande bonarietà. Dal 1 gennaio 1973, meno di un anno dopo l’incendio all’ambasciata britannica di Dublino, i due paesi sarebbero diventati partner molto stretti nel progetto europeo. Si potrebbe addirittura dire che l’Irlanda dovesse ai suoi profondi legami economici con il Regno Unito il suo posto in quello che all’epoca era un club esclusivo. Da sola l’Irlanda era troppo povera per giustificare un posto al tavolo più importante dell’Europa. Era stata ammessa di fatto solo sulla scia di Londra.
Gomito a gomito
Con il senno di poi è strano vedere come queste due storie siano andate avanti l’una di fianco all’altra: una fatta di animosità profonda e radicata e l’altra fatta di intensa cooperazione; una piena di fratture e divisioni, l’altra basata su un impegno congiunto per una “unione ancora più stretta” in Europa.
E in effetti, l’appartenenza all’Unione europea ha permesso all’Irlanda di svezzarsi dalla dipendenza dall’economia britannica e ottenere un’indipendenza ancora più sostanziale (uno dei tanti concetti che i sostenitori della Brexit non sono mai riusciti a comprendere è che l’Unione europea, ai loro occhi oppressiva, per i paesi più piccoli poteva rappresentare la possibilità di affrancarsi dal controllo esercitato da vicini più grandi). Tuttavia l’Ue è stata anche una scuola in cui i governi irlandese e britannico hanno imparato a lavorare gomito a gomito e insieme, nel rispetto reciproco.
Quell’esperienza ha reso a sua volta possibile la coreografia congiunta degli anni novanta, l’insieme di passi attentamente calibrati che hanno prodotto l’accordo di pace del 1998 (accordo del venerdì santo). Nel 2011, quando la regina è stata la prima monarca britannica a visitare l’Irlanda meridionale negli ultimi cento anni, sembrava davvero che questi rapporti di buon vicinato fossero diventati una condizione permanente e che l’arroganza britannica e la rabbia irlandese fossero reperti in un museo di cimeli storici.
Quell’illusione di permanenza è stata fatta a pezzi dalla Brexit, non solo perché è venuto meno il terreno comune dato dall’appartenenza all’Ue, ma anche per il rifiuto di pensare alle conseguenze per l’Irlanda. Ancora adesso molti sostenitori della Brexit non ritengono che quelle conseguenze siano gli esiti inevitabili delle loro scelte, ma una sorta di cospirazione irlandese per schiacciarli. In un angolo della loro mente sono ancora convinti che a questo punto la Brexit sarebbe stata un successo straordinario se solo quei dannati irlandesi non avessero rovinato tutto con le loro clausole di protezione e i loro protocolli. Il tentativo esplicito dell’amministrazione Johnson di rivedere l’accordo sulla Brexit proprio per la questione irlandese, ha riportato in vita il vecchio spettro dei sentimenti antibritannici.
Eppure dovremmo ricordarci del 1972. Anche in una situazione così nera, la posta in gioco era troppo alta perché Regno Unito e Irlanda potessero permettere che la loro relazione si deteriorasse fino a diventare tossica. Due piccoli dettagli le costringevano a stare assieme: la storia e la geografia. Le due grandi isole nel nostro arcipelago non possono sottrarsi l’una al destino dell’altra più di quanto la Gran Bretagna non possa allontanarsi dall’Europa galleggiando nell’Atlantico.
Potremmo addirittura comprenderci meglio. I più lenti di comprendonio in Gran Bretagna hanno scoperto, dopo appena un secolo, che l’Irlanda è un paese indipendente con degli interessi nazionali e dei rapporti con l’Europa autonomi, e gli irlandesi hanno scoperto di non avere il monopolio sulle crisi di identità e sul tribalismo binario in queste isole. Per l’Irlanda è una sensazione nuova sentirsi il paese più stabile e fiducioso dell’arcipelago, e per il Regno Unito è una novità doversela vedere con i postumi complicati di una rivoluzione nazionalista. Tutti noi potremmo aver bisogno di tempo per abituarci a queste novità. Ma in circostanze molto peggiori di questa abbiamo trovato un modo per affrontare assieme delle nuove realtà.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.
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