A Regent, sopra Freetown, la capitale della Sierra Leone, la montagna è venuta giù una notte di pioggia, lasciando uno squarcio di terra rossa e almeno 1.141 vite sepolte.
Da quella ferita è nata l’idea di riforestare, trasformando Freetown, la città degli schiavi liberati, in Treetown, la città degli alberi. Che non rinnega le sue radici, anzi: parte proprio da lì per immaginare il suo futuro. Un futuro verde, dalle ville con vista panoramica di Leicester peak, giù per le colline, fino agli slum in riva all’oceano Atlantico.
Freetown the Treetown è il nome di un progetto avviato dal comune della città africana, in collaborazione con associazioni e collettivi di 64 zone dell’area metropolitana.
La frana a Regent
Il 14 agosto 2017 la frana di Regent costrinse le autorità a evacuare un quartiere intero e lasciò dei segni che si vedono ancora oggi. Ci fermiamo proprio dove il costone di montagna venne giù.
“Nessuno sa quante persone siano rimaste sepolte perché non si sapeva quante case ci fossero prima”, dice Gianni Bagaglia, un cooperante che lavora con la Fondazione Avsi, che vive ancora a Regent e che all’epoca si era appena trasferito dall’Italia.
Di fronte a noi, la montagna sembra spaccata in due. Ai lati della terra lasciata nuda dalla frana sta ricrescendo una foresta. Il comune si è impegnato a piantare centomila alberi per fissare il terreno: contarli è difficile, ma il verde prova di nuovo ad avanzare.
Freetown è un labirinto di colline e baraccopoli. Compressa su una penisola stretta tra le montagne e l’oceano, con circa 8.450 abitanti per chilometro quadrato è una delle capitali più densamente popolate dell’Africa.
A favorire il disboscamento è stata una legge sui terreni edificabili entrata in vigore nel 1960, subito prima dell’indipendenza dal Regno Unito, secondo la quale chi compra un terreno deve costruire entro tre anni, altrimenti perde il diritto a farlo.
Sulle colline continuano a venir su case con balconi e patii in legno in stile coloniale, mentre le baracche in lamiera avanzano su spiagge regolarmente inondate dall’Atlantico.
La risposta a queste difficoltà sono stati gli alberi. A Freetown l’obiettivo è piantarne cinque milioni entro il 2030, non solo a Regent ma in tutta l’area metropolitana, fino all’imboccatura della penisola, tra i mercati di Waterloo, un sobborgo chiamato così dagli inglesi, vincitori della battaglia contro Napoleone.
Mangrovie a Kolleh Town
Il progetto Freetown the Treetown è stato lanciato nel 2020. La prima fase è stata supportata da donatori internazionali come la Banca mondiale o la fondazione statunitense Bloomberg.
Sono state scelte le mangrovie, con già almeno 300mila piantumazioni , molto utili per contrastare l’erosione costiera e le inondazioni. I numeri complessivi dell’iniziativa, a oggi più di 1,25 milioni di nuovi alberi, sono certificati.
Grazie a un’app, dotata di un sistema di qr code, per trasmettere foto e informazioni a un database centrale, gli attivisti dei vari quartieri piantano e monitorano la crescita di ogni singolo fusto.
Nello slum di Kolleh Town le mangrovie hanno già formato una piccola foresta in riva all’oceano. “Dopo ogni tempesta rimuoviamo buste o altri rifiuti di plastica riportati dall’oceano che rischierebbero di soffocare le piante”, spiega Martha Bayoh, una degli attivisti.
Ha due figli, è una grower addetta alla cura delle mangrovie e per ogni giorno di lavoro guadagna l’equivalente di tre dollari (il salario mensile minimo in Sierra Leone è di 33 dollari, ma l’economia è in gran parte informale).
Con lei c’è Kadiatu Turay, una tracker incaricata della verifica e del trasferimento dei dati. “Dobbiamo fotografare gli alberi a uno a uno con lo smartphone”, dice mostrando l’app dai colori sgargianti. “Ogni pianta ha un tag e un numero; il contratto prevede dieci giorni di lavoro al mese, l’unico problema è se si rompe il telefono”.
Parla di costi e benefici anche Saibatu Sandy, di Fedurp, un’organizzazione nata negli slum. “Noi siamo il problema e noi siamo la soluzione”, dice puntandosi un dito al petto. “Il lavoro è particolarmente intenso tra aprile e ottobre, per la stagione delle piogge, ma nel complesso il progetto funziona: molti dei partecipanti hanno potuto avviare un’attività commerciale, altri sono riusciti a pagare l’affitto e a mandare i figli a scuola”.
Un altro vantaggio è che si riduce il pericolo di inondazioni. “Qui le case sono costruite su terrapieni artificiali ad alto rischio”, sottolinea Sandy, “perché poggiano anche su discariche di rifiuti di plastica”.
Crediti di carbonio
Il comune di Freetown ha fondi limitati. L’idea è accedere a nuove risorse attraverso il mercato internazionale dei crediti di carbonio, favorendo gli investimenti privati.
Una delle parole chiave è token: una rappresentazione digitale che certifica come un’azienda o un’istituzione abbiano compensato l’emissione di una tonnellata di anidride carbonica equivalente supportando un progetto verificato.
Ne parliamo con Abdulai Thaimu Bundu, consulente dell’amministrazione cittadina per il progetto. Il primo interrogativo riguarda i rischi di speculazione delle multinazionali che, a livello globale, inquinano e aggravano i cambiamenti climatici.
“Le priorità sono la trasparenza degli investimenti, affinché abbiano un impatto reale, e la creazione di un portfolio aperto a tutti coloro che vogliono contribuire davvero alla riforestazione”, assicura Bundu. “Poi ci sono altre questioni, come la firma di un’intesa con il ministero della pianificazione territoriale della Sierra Leone: ci deve essere infatti un impegno per il futuro, perché i nuovi governi non distruggano ciò che è stato realizzato”.
Rivali ambientaliste
Gli equilibri politici non vanno sottovalutati. La figura chiave di Freetown the Treetown è la sindaca della capitale, Yvonne Denise Aki-Sawyerr. Laureata al Fourah Bay college, l’università più antica e prestigiosa della Sierra Leone, ha continuato gli studi nel Regno Unito con un master alla London School of Economics.
Dopo una carriera come manager e consulente finanziaria nella City, è rientrata nel suo paese nel 2015 per dare un contributo nella lotta contro l’epidemia di ebola, prima come volontaria e poi assumendo un ruolo direttivo nella pianificazione della risposta sanitaria.
A livello internazionale, questo impegno le è valso la nomina a ufficiale dell’Ordine dell’impero britannico, un’onorificenza conferita dalla regina Elisabetta II. La scelta di dedicarsi alla politica, con un’attenzione speciale per l’ambiente, è arrivata dopo la frana di Regent: è per questo, stando ad alcune interviste, che ha deciso di candidarsi alle elezioni del 2018.
Oggi Aki-Sawyerr, 57 anni, ha una visibilità internazionale. Ha ricevuto diversi premi in Europa e presiede, insieme al sindaco di Londra Sadiq Khan, C40 Cities, una rete globale che ha definito Freetown the Treetown un’esperienza “altamente replicabile”.
Rispetto al governo nazionale, Aki-Sawyerr è all’opposizione. Una circostanza che, almeno per ora, non ha ostacolato la riforestazione. A scommettere sugli alberi sono infatti anche dirigenti dell’esecutivo nazionale, sostenitori del presidente Julius Maada Bio e iscritti al Partito popolare della Sierra Leone.
Incontriamo la viceministra per l’ambiente e i cambiamenti climatici, Mima Yema Mimi Sobba-Stephens, sotto il Cotton tree, l’enorme albero di kapok sotto cui nel 1792 pregarono e resero grazie a Dio i fondatori di Freetown, cioè gli schiavi liberati dagli inglesi per aver combattuto al loro fianco nella guerra d’indipendenza degli Stati Uniti.
Il tronco è stato spezzato da una tempesta nel 2023, ma la pianta resta un simbolo nazionale (è anche sulle banconote da 10 leoni, la valuta locale).
Convinciamo la viceministra a farsi ritrarre accanto alle radici, su un rialzo di cemento che le protegge separandole dall’asfalto di un incrocio. Le chiediamo di toccare l’albero ma lei spiega che non può: nelle culture locali quel legno scuro ha un valore spirituale, come gli iroko e altri alberi centenari. Così torniamo a parlare di politica.
“L’impegno per la riforestazione è essenziale contro le frane, l’erosione costiera e i cambiamenti climatici”, sottolinea. “Bisogna anche ridurre la raccolta di legna e carbone, combustibili che, in assenza della corrente elettrica, più dell’80 per cento dei sierraleonesi usa ancora oggi per cucinare”.
Stufe in vendita al mercato
Accompagnata da attori comici e artisti di strada, Mimi fa tappa in un mercato. Parla al megafono tra clienti incuriositi e venditrici indaffarate, che portano sulla testa bacinelle di plastica ricolme di banane, noci di cocco da bere e bevande gassate.
La viceministra vuole convincerli a comprare stufe ad alta efficienza, realizzate in lamiera e ceramica. Costano tra i 200 e i 300 leoni (tra 8 e 13 dollari), più di un tradizionale treppiede per la cottura sul fuoco vivo, ma durano a lungo e consumano il 60 per cento di carbone in meno.
“Cook quick, cool clean, beaucoup cook” (cucina in fretta, cucina pulito, cucina tanto) canta tra la folla il saltimbanco Ibrahim Bushereb, intrecciando ritmi afrobeat e strofe in krio, la lingua locale che riprende elementi dell’inglese e in qualche caso del francese.
A produrre le stufe sono startup, piccole imprese o collettivi di lavoro, a Freetown ma anche a Kenema e a Bo, la seconda città del paese, a quattro ore di automobile dalla capitale. È lì, in un’officina sul ciglio della strada, che incontriamo Doreen Sambo. Ha 22 anni e indossa una tuta blu anche se studia all’università. Appoggiati i suoi attrezzi su un muretto, racconta un po’ di sé: “Frequento l’ultimo anno di scienze politiche, qui in città; la tesi sarà sull’impatto dei golpe militari in Africa occidentale, con capitoli dedicati alla lotta alla corruzione, al bisogno di stabilità, ai diritti dei cittadini”.
Sambo si avvicina a un tavolo con martelli e piegatrici che servono per curvare pannelli. Sorride mentre dice che si può “amare il proprio paese” anche con il lavoro. Poi mostra bracieri in ceramica e cassetti per la cenere in metallo: componenti assemblati per realizzare le stufe ad alta efficienza, che produce al ritmo di tre al giorno, venti alla settimana.
A saldare e testare, in questa e in altre officine, sono le studenti del collettivo Girls energy action development initiative. “L’obiettivo è innanzitutto ridurre l’inquinamento e il fumo”, spiega Sambo. “Durante la stagione delle piogge, quando si sta all’interno di abitazioni in lamiera, possono essere letali”.
Di nuovo a Freetown
La produzione e la vendita di stufe sono cresciute grazie al sostegno internazionale, in particolare attraverso il programma Energising development (EnDev), realizzato dall’agenzia della cooperazione tedesca Giz in coordinamento a livello locale con la Fondazione Avsi.
Tornati a Freetown, ne parliamo ancora con Bagaglia. “Il supporto alla produzione di stufe migliorate è in linea con la strategia della città e del governo”, sottolinea. “L’obiettivo nazionale è far adottare metodi di cottura puliti a un milione di famiglie entro il 2030”.
La questione è importante anche per la salute delle persone. “Si calcola”, dice Stephen Mulbah, uno dei responsabili di EnDev in Sierra Leone, “che in Africa i fumi della cucina tradizionale, a fuoco aperto, uccidano ogni anno circa 600mila persone, in maggioranza donne e bambini”.
Oltre alle emissioni di anidride carbonica e alla tutela delle foreste, insomma, in gioco c’è la sopravvivenza. E a Freetown-Treetown gli alberi si salvano insieme agli esseri umani.
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