Le tre file di mine disegnano delle traiettorie a zig-zag. Ce ne sono migliaia, ognuna capace di mutilare o uccidere una persona. Molte si distinguono grazie a un piccolo cerchio verde sulla parte superiore, che però sarebbe difficile notare per chi passa da qui rapidamente o non sa che dovrebbe farci attenzione.

Questo campo minato, a sudovest della città di Raqqa, nel nord della Siria, è uno dei lasciti del regime di Bashar al Assad, rovesciato a dicembre del 2024 dopo 14 anni di guerra.

Il campo è largo almeno sei chilometri: ogni tre metri quadrati ci sono sei mine antipersona e quattro mine anticarro. Si pensa che siano state piazzate qui per proteggere un oleodotto.

Alcuni civili in passato hanno provato a rimuoverle. Gli artificieri professionisti che stanno lavorando nella zona ci raccontano che un uomo era riuscito a neutralizzarne trenta, prima di essere ucciso dalla trentunesima. Anche un motociclista e un camionista sono rimasti uccisi. Un veicolo della Mezzaluna rossa siriana è saltato in aria, poco lontano da dove ci troviamo, ma l’autista è sopravvissuto miracolosamente perché l’esplosione è stata innescata da una ruota dal lato del passeggero.

Gli artificieri ci spiegano che per far esplodere una mina anticarro è necessario un peso tra 63 e 120 chili, ma la ruggine le rende più sensibili. Per le mine antipersona bastano 3-6 chili.

Questo campo minato, scoperto da poco, è il promemoria di una minaccia costante, a quasi trent’anni dal trattato di Ottawa del 1997 che ha vietato la produzione, l’uso e le scorte di mine antipersona.

Il trattato, sottoscritto dai rappresentanti di 120 paesi, era stato celebrato come un risultato monumentale. Nel 1997 il premio Nobel per la pace fu assegnato alla International campaign to ban landmines (Icbl) e all’attivista americana Jody Williams, che col suo lavoro aveva permesso di arrivare alla firma del trattato.

“Le mine sono un flagello per i paesi poveri”, si legge sul sito del premio Nobel nella sezione dedicata al riconoscimento assegnato a Williams e alla Icbl. Nel 1997 cento milioni di mine inesplose erano ancora sepolte in sessanta paesi in seguito a guerre e conflitti armati. “Il loro scopo è mutilare o uccidere i soldati, ma a pagarne il prezzo è soprattutto la popolazione civile”.

Una decisione sconvolgente

Nonostante tutto questo, alcuni paesi che anni fa avevano firmato l’accordo hanno cominciato a rinnegarlo. Il 19 giugno 2025 il parlamento finlandese ha votato a favore dell’uscita dal trattato, imitato sei giorni dopo da quello polacco.

Il 29 giugno il presidente ucraino Volodymyr Zelenskiyj ha dichiarato di aver firmato un decreto per ritirare l’Ucraina dall’accordo di Ottawa.

A marzo Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania hanno pubblicato un comunicato in cui raccomandavano l’uscita dal trattato di Ottawa perché “le minacce militari per i paesi della Nato confinanti con la Russia e la Bielorussia” sono “significativamente aumentate”, per questo hanno voluto “mandare un messaggio chiaro: i nostri paesi sono pronti a usare ogni mezzo necessario per difendere il nostro territorio e la nostra libertà”.

La decisione di questi paesi è stata elogiata anche dal presidente finlandese Alexander Stubb: “Abbiamo come vicino uno stato imperialista e aggressivo che si chiama Russia”, ha dichiarato Stubb. “Mosca non fa parte del trattato di Ottawa e usa le mine in modo spietato”.

I sostenitori della messa al bando delle mine sono rimasti sconvolti da queste decisioni. Josephine Dresner, dirigente dell’organizzazione non governativa Mines advisory group (Mag), parla di “notizie profondamente sconfortanti, soprattutto considerando i grandi risultati ottenuti negli ultimi trent’anni nel prevenire l’uso e la diffusione delle mine ”.

Gli attivisti temono che tutto faccia parte di una tendenza più ampia all’erosione delle regole della guerra e del diritto internazionale umanitario. “Come tutti sanno, i conflitti e le tensioni geopolitiche stanno aumentando ovunque. A Gaza la situazione è terribile”, sottolinea Dresner. “In questo contesto è impossibile non avere l’impressione che stiamo facendo passi indietro, soprattutto se pensiamo alle minacce per l’ordine internazionale basato sulle regole e per le istituzioni che da decenni proteggono i civili”.

L’attivista spera che “gli stati in questione eviteranno di usare effettivamente le mine e di aumentarne la diffusione e soprattutto il commercio”.

Dresner ricorda che prima dell’entrata in vigore del trattato del 1997 “le vittime nel mondo erano circa 22mila ogni anno, mentre nel 2016 erano scese a meno di mille: una riduzione di quasi il 95 per cento”. Da allora, spiega, le cifre hanno ripreso ad aumentare.

Il rapporto annuale Landmine monitor indica che nel 2023, ultimo anno di cui ci sono dati completi, le mine hanno ucciso almeno 1.983 persone, e ne hanno ferite 3.663. Nell’84 per cento dei casi sono stati colpiti dei civili, e nel 37 per cento dei bambini.

Vittime di mine antipersona e residuati bellici esplosivi nel mondo, migliaia

La Siria è al secondo posto nella classifica mondiale del numero di morti causate dalle mine, preceduta solo dalla Birmania e seguita dall’Afghanistan e dall’Ucraina. Dresner sottolinea che le mine sono usate diffusamente in Yemen, e circolano diverse notizie sul loro impiego in Sudan: “Il ricorso a mine artigianali o altri ordigni simili di organizzazioni non statali è rilevante in molti paesi africani, soprattutto intorno alla regione del Sahel, come Burkina Faso, Niger, Mali e Nigeria”.

La Russia usa le mine in Ucraina fin dall’inizio della sua invasione nel 2022. E molti dei campi minati creati dal regime di Assad in Siria contengono probabilmente ordigni fabbricati in Russia. Nel 2012 l’organizzazione umanitaria Human rights watch ha dichiarato che le dimensioni e le origini dell’arsenale di mine del governo siriano erano sconosciute, ma con ogni probabilità si trattava soprattutto di “mine prodotte in Russia e in Unione Sovietica, come le mine antipersona PMN-2 e le mine anticarro TMN-46”.

L’ong Syrian network for human rights (Snhr) ha accertato la morte di almeno 3.521 civili a causa dell’esplosione di mine tra il marzo 2011 e la fine del 2024. Tra i morti ci sono stati 931 bambini e 362 donne, insieme a nove giornalisti, otto operatori sanitari e sette dipendenti della protezione civile. L’organizzazione ha sottolineato che anche altre fazioni coinvolte nella lunga guerra siriana “usano comunemente le mine”.

Il dolore degli innocenti

“Le mine costano poco. Sono gli ordigni più facili da produrre, lo strumento più economico che un esercito possa usare per fermare l’avanzata di un nemico”, spiega Riaan Boshoff, dirigente del Mag, un’organizzazione che si è fatta carico dello sminamento del campo visitato dall’Irish Times e risalente all’epoca di Assad.

Le mine continuano a uccidere anche molto tempo dopo la fine di un conflitto. “Rimuoverle è estremamente costoso”, spiega Najwa Al Canada, responsabile del programma di sviluppo del Mag.

È un’attività sfiancante e dispendiosa, ma chi se ne occupa sottolinea che quando gli ordigni restano nel terreno, provocano inevitabilmente dolore e sofferenza a persone innocenti.

La Siria non ha mai fatto parte del trattato di Ottawa. Le organizzazioni umanitarie, come il Syrian network for human rights e Human rights watch, chiedono al nuovo governo di Damasco di aderire al trattato e alla Convenzione sulle munizioni a grappolo.

Dresner ritiene che l’ex dittatore Assad, oggi in esilio in Russia, potrebbe essere processato in quanto responsabile dell’installazione delle mine.

In Siria, dice, “il modo in cui le mine sono state usate viola in generale il diritto internazionale umanitario, considerando le conseguenze che hanno per i civili. E questo dovrebbe essere un elemento di un processo più ampio contro il regime siriano per gli attacchi e le sofferenze inflitti alla popolazione civile”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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