Il governo cinese ha lasciato passare un giorno prima di diffondere una pacata dichiarazione sulla morte di papa Francesco, mentre nel resto del mondo gli omaggi al pontefice sono stati immediati. La classica esitazione cinese, manifestata perfino nel lutto, avrebbe sicuramente frustrato il papa, che sognava di farsi aprire le porte dell’impero di mezzo.

Durante il suo pontificato, Francesco ha espresso più di una volta il desiderio di visitare la Cina e i circa dodici milioni di cattolici che ci vivono. Nonostante gli intensi sforzi diplomatici, che gli sono valsi diverse critiche, non è però mai stato possibile. Oggi il clima internazionale rende poco probabile un cambiamento di linea, a prescindere dal nome del suo successore.

Apriamo una piccola parentesi storica. Nel giardino della scuola centrale del Partito comunista cinese, a Pechino, si trova la tomba di quello che agli occhi dei cinesi è il più illustre dei cattolici europei: Matteo Ricci, missionario gesuita italiano morto nel 1610, dopo essere stato ammesso alla corte dell’imperatore Ming, Wanli. Quattro secoli dopo, un altro gesuita, papa Francesco, ha cercato invano di ripetere quell’exploit.

Le ragioni del suo fallimento sono diverse, ma sono legate soprattutto alla volontà feroce del presidente Xi Jinping di controllare le religioni con il pugno di ferro, seguendo una lunga tradizione.

In un racconto pubblicato a metà del diciannovesimo secolo, il missionario francese Evariste Huc riferiva una conversazione avuta con un mandarino cinese, che gli aveva spiegato l’autorità illimitata dell’imperatore (il “figlio del cielo”) sui suoi sudditi.

Per questo motivo il sovrano non poteva accettare che i suoi sottoposti obbedissero a un altro “imperatore”, il papa della chiesa cattolica. Due secoli dopo, sostituendo la carica con “segretario del partito comunista”, il risultato non cambia.

In Cina esiste una chiesa cattolica ufficiale che si chiama Associazione patriottica dei cattolici cinesi, fondata nel 1957 e sottoposta al potere di Pechino, non a quello del Vaticano.

Ma allo stesso tempo sopravvive una chiesa rimasta fedele a Roma e sopravvissuta alle vicissitudini della storia. È a questo scisma de facto che Francesco avrebbe voluto mettere fine.

Dopo anni di trattative, nel 2018 il Vaticano ha concluso un accordo con Pechino, ma è stato accusato di tradimento da alcuni cattolici cinesi, comprese figure piuttosto influenti.

La parola “tradimento” è stata utilizzata anche da Joseph Zen, vescovo emerito di Hong Kong che ha accusato il papa di “non capire niente” della Cina e dei comunisti. Zen ha rimproverato al pontefice di aver accettato, in nome della normalizzazione, una collaborazione con Pechino sulla scelta dei vescovi cattolici cinesi, anche a rischio di sacrificare i componenti della chiesa detta “sotterranea” che resistono da decenni.

Anche se l’accordo del 2018 è stato prolungato, non ci sono stati altri passi avanti, e soprattutto non c’è stata una visita del papa in Cina.

Il partito comunista, tra l’altro, ha imposto un giro di vite a tutte le religioni, che Xi vorrebbe “nazionalizzare” per non lasciare che le influenze straniere possano indebolire la presa del governo.

La difficoltà è legata anche al fatto che il Vaticano riconosce Taiwan e che per ottenere una distensione con Pechino dovrebbe abbandonare Taipei e i suoi quasi 300mila cattolici.

Ed ecco perché la Cina ha tenuto le porte chiuse a papa Francesco, con l’intenzione di tenerle chiuse al Vaticano anche nel prossimo futuro.

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