Pensavamo che saremmo rimasti fuori del paese solo per poco. Pensavamo che, entro pochi giorni dalla pubblicazione, la dittatura salvadoregna sarebbe stata distratta da un altro problema. Avremmo valutato i rischi del ritorno e solo dopo saremmo rientrati. Saremmo scesi all’aeroporto monseñor Romero, a San Salvador, ci saremmo fermati a Olocuilta per un piatto di pupusas (una ricetta tipica del paese), avremmo dormito nelle nostre case, ritrovato gli animali, abbracciato i figli.
Siamo partiti con il bagaglio a mano: nessuno portava più di dieci paia di mutande. Puntavamo tutto su un’asettica definizione formulata per queste situazioni e ormai collaudata: partenza preventiva. Per la prima volta però, uno di noi ha detto che la dittatura ce l’avrebbe fatta pagare cara. Ma continuavamo a ripetere “partenza preventiva”. Lo abbiamo detto di nuovo una settimana dopo, due settimane dopo, un mese dopo, quando ancora non potevamo rientrare, e lo diciamo ancora oggi, anche se meno spesso, mentre alcuni cominciano a parlare di esilio e a cercare casa fuori da El Salvador.
Il primo episodio dell’inchiesta video “Le confessioni di Charli: intervista a un leader di gang sui suoi patti segreti con Nayib Bukele” è stato pubblicato dal nostro giornale, El Faro, il 1 maggio all’ora di pranzo con sottotitoli in inglese. Quel giorno noi giornalisti che avevamo intervistato i due leader della banda criminale Barrio 18 eravamo in varie città – New York, Città del Messico, Città del Guatemala e Los Angeles – in partenza preventiva. In poco tempo, saremmo tornati.
Un avvertimento
Nel Salvador il popolare dittatore Nayib Bukele è il re dei social media. Pollici in su, cuoricini, commenti e visualizzazioni sono la valuta del suo regno. Il suo video più visto su YouTube, sul megacarcere Cecot, l’unica prigione salvadoregna che il presidente mostra al mondo, ha totalizzato 3,8 milioni di visualizzazioni in due anni. Il secondo, intitolato “Perché abbiamo distrutto le tombe degli affiliati delle gang?”, ha raggiunto i tre milioni di visualizzazioni nello stesso arco di tempo.
Potrà sembrare poco a uno youtuber giramondo che fa smorfie davanti a cibi piccanti in Asia o impara a dire “ciao” in swahili, ma è tantissimo per il leader di un paese come il Salvador, che ha circa sei milioni di abitanti. E questo solo sul suo canale. Su YouTube e su tutte le altre piattaforme Bukele è un vero marchio. Non è raro che in un solo giorno i suoi sostenitori pubblichino più di cento video su di lui, su diversi canali.
Il primo video che abbiamo pubblicato era un’intervista a due membri della gang, fuggiti dal paese grazie al governo Bukele. Hanno confessato i dettagli di un patto, durato più di otto anni, con la cerchia ristretta di collaboratori del presidente. In ventiquattro ore il video ha superato le 326mila visualizzazioni. Due mesi dopo, i tre episodi dell’intervista hanno raggiunto i due milioni di visualizzazioni su YouTube. Sui nostri altri account social gli estratti dell’intervista sono stati visti più di quindici milioni di volte.
I leader del Barrio 18 revolucionarios hanno distrutto l’immagine di un Bukele nemico delle gang: hanno rivelato che il suo partito dell’epoca, il Frente Farabundo Martí para la liberación nacional (Fmln), aveva pagato alle bande 250mila dollari per farlo eleggere sindaco della capitale (lo è stato dal 2015 al 2018), quando ancora si dichiarava di sinistra. Il patto è proseguito anche durante la sua presidenza, con sotterfugi che consentivano agli affiliati delle bande di estorcere e uccidere impunemente. I due leader criminali hanno aggiunto che il governo li ha aiutati a scappare dal Salvador.
El Faro aveva già pubblicato numerose prove sulla collaborazione tra Bukele e le bande, ma al giorno d’oggi un documento d’intelligence timbrato e firmato o le immagini delle telecamere di sicurezza del carcere pesano meno di un noto leader criminale latitante che lo dice davanti a una telecamera. Molte persone vogliono che la realtà sia raccontata come in una serie di Netflix.
I social media sono il regno di Bukele: impartisce ordini ai suoi ministri usando X e annuncia le decisioni politiche più importanti in diretta su Facebook. I video con le confessioni degli affiliati delle gang hanno occupato quel regno per giorni. Poco più di un mese prima Bukele aveva accolto più di duecento venezuelani inviati nel megacarcere da Donald Trump, presentandosi come colui che ha sconfitto i criminali, come il padrone del carcere più duro del paese. Nei nostri video appariva per quello che era davvero: il socio politico delle bande.
Appena tre ore dopo la pubblicazione delle interviste il direttore dell’intelligence governativa di Bukele, Peter Dumas, ha scritto su X: “Non dovresti usare i mortai contro chi ha le bombe”. Rispondendo poi a un post di un collega giornalista, ha insinuato che fossimo colpevoli di vari crimini: “Legami con le gang, traffico di droga, abusi sessuali, tratta di esseri umani e altri reati. Non potete nascondervi per sempre dietro lo scudo invisibile del ‘giornalismo’”.
Quella stessa notte una fonte interna affidabile ci ha avvertiti che la procura stava preparando almeno sette mandati di arresto contro persone della redazione per reati legati alle bande. Da quando lo stato d’emergenza è entrato in vigore, nel marzo 2022, il giusto processo è sospeso per chiunque sia accusato di far parte di un gruppo criminale: le udienze sono segrete, i giudici sono a volto coperto, la detenzione preventiva è illimitata, si possono processare fino a novecento imputati per volta e in molti casi le prove sono così inconsistenti che per l’arresto può bastare un presunto “nervosismo” dell’imputato.
La fonte ci ha fatto capire che stavamo rischiando di andare incontro allo stesso destino di decine di migliaia di innocenti tra le oltre 85mila persone arrestate in più di tre anni: una vita nelle carceri di Bukele. Abbiamo documentato diverse atrocità commesse in quelle prigioni. Il direttore dei centri penitenziari del Salvador, Osiris Luna Meza, insieme alla madre, ha rubato beni alimentari per 1,6 milioni di dollari destinati ad alleviare la fame durante la pandemia, sfruttando i prigionieri per reimpacchettarli. La tortura è sistematica. Si usano sacchi neri per soffocare e tecniche dolorose per appendere i corpi. Diverse persone senza precedenti penali o tatuaggi (segno di appartenenza alle bande) sono uscite morte dai loro sotterranei, con segni evidenti di tortura, senza essere mai state condannate. I medici legali si limitano a “pulire” le autopsie con la formula “morte per edema polmonare”: più o meno come dire che la persona è morta perché ha smesso di vivere.
La natura provvisoria del nostro allontanamento cominciava a essere inghiottita dall’incertezza. Stare qualche giorno lontano è sopportabile, dopo qualche settimana pensi alle bollette, a una visita medica che devi fare, alla recita della figlia. L’idea di non poter tornare a casa per più di un mese manda in cortocircuito il pensiero. Qualche ore dopo la pubblicazione, ci siamo tutti pentiti di aver messo così poco in valigia. “Siamo fottuti”, ha detto un collega in una riunione online, riassumendo lo stato d’animo collettivo. Ma il piano restava lo stesso: tornare presto. Raccontare cos’era successo, avvisare le organizzazioni internazionali, affrontare pubblicamente le minacce, concedere interviste su quanto avevamo scoperto e rientrare.
Il governo Bukele ha fatto ricorso alle sue tattiche più meschine. Decine di youtuber e sedicenti analisti politici hanno dichiarato che eravamo membri delle gang e hanno speculato sui crimini per cui avremmo dovuto pagare. Hanno chiesto il nostro arresto. Decine di documenti pubblicati dal Faro, da altre testate e dal governo statunitense, che confermavano le dichiarazioni dei due leader criminali intervistati, non contavano più. Contava solo l’affronto al re.
Un avvocato, a nostro nome, è andato in procura per presentare una richiesta formale di chiarimenti sulle accuse contro di noi. I pubblici ministeri avevano quindici giorni lavorativi per rispondere. Sospettavamo che quei quindici giorni sarebbero stati riempiti di silenzio istituzionale. Non ci sbagliavamo.
Non eravamo i primi costretti a lasciare il paese nell’era Bukele per aver rivelato verità scomode.
Un pizzico di ingenuità
Una settimana dopo la pubblicazione delle interviste, noi e altri cinque giornalisti del Faro eravamo ancora all’estero, ma speravamo di tornare presto. “Torno il 14 maggio, ho già il biglietto”, ha detto uno. Abbiamo deciso di provare a rientrare tutti negli stessi giorni. Eppure la parola esilio cominciava a farsi spazio. Con il passare delle settimane decine di altri giornalisti e attivisti per i diritti umani hanno lasciato il paese dopo aver visto pattuglie della polizia aggirarsi intorno alle loro case, aver saputo di essere nelle liste di arresto o ricevuto avvertimenti urgenti da fonti fidate. Altri se ne sono andati su pressione delle famiglie o per paura.
L’idea di rientrare il 14 maggio è stata accantonata in pochi giorni: la stessa fonte continuava ad assicurarci che al nostro ingresso in Salvador saremmo stati arrestati e non trovavamo un’altra fonte che contraddicesse questa versione.
Da anni trovare fonti in Salvador è complicato. Bukele ha espresso pubblicamente il suo odio per El Faro, così come per altre testate, e nel 2020 ci ha perfino accusato in diretta televisiva nazionale di riciclaggio di denaro. L’accusa ci ha costretto a spostare la sede legale in Costa Rica nel 2023. Il giornale è in esilio.
L’anno dopo Bukele ha espulso due giornalisti stranieri del Faro sostenendo che non potevano dimostrare di essere giornalisti, anche se uno dei due aveva ricevuto molti premi internazionali. Bukele ci ha dichiarati suoi nemici e, in più di un’occasione, “nemici del popolo”. Se qualcuno aveva ancora dubbi sul fatto che parlare con noi fosse rischioso, forse li ha persi quando abbiamo rivelato che 22 dipendenti del giornale erano stati spiati con il software Pegasus tra il giugno 2020 e il novembre 2021.
“Se trovi Pegasus sai che quella persona è stata hackerata da un governo”, ha detto John Scott-Railton, ricercatore del Citizen lab dell’università di Toronto, che ha esaminato i nostri dispositivi, rilevando 226 intrusioni.
Ottenere informazioni sotto il regime Bukele non è solo più difficile, ma anche più costoso: ciò che prima si risolveva con un caffè oggi richiede una strategia complessa. Se ci troviamo nel paese, dobbiamo affittare appartamenti e auto per un giorno, per incontrare le persone in luoghi sicuri senza essere seguiti; nei casi più delicati, quando le fonti sono disposte a parlare solo fuori dei confini, fissiamo appuntamenti in città straniere.
Eppure in quei giorni siamo riusciti a parlare con poliziotti, procuratori e investigatori vicini alle istituzioni governative. Tutti ci hanno detto che, se c’erano dei mandati di cattura, solo pochissimi ne erano al corrente, e loro non avevano accesso a quelle informazioni. Ci serviva tempo per pensare e avevamo una scusa perfetta: il forum di giornalismo centroamericano in Costa Rica, dal 4 al 5 maggio.
In Salvador i nostri video continuavano a dominare le discussioni sui social. Bukele ha risposto con una mossa studiata per accrescere la sua popolarità: il 5 maggio ha ordinato sei giorni di trasporto pubblico gratuito in tutto il paese, sostenendo che fosse necessario per la chiusura dell’autostrada Los Chorros, nonostante riguardasse solo una piccola parte del territorio. Il primo giorno di trasporto gratuito è stato caotico: decine di salvadoregni si arrampicavano sui pochi autobus in servizio, come migranti in equilibrio su un treno merci in corsa attraverso il Messico. Quelle immagini hanno invaso telegiornali, giornali e social media. Bukele ha dato la colpa alle aziende di trasporto, che avevano deciso di non operare perché, al di là del suo ordine, non avevano ricevuto alcuna garanzia dallo stato sui pagamenti. Nessun decreto: solo un post sui social, proprio nel suo stile. Bukele è ricorso alla sua tattica preferita: ha ordinato l’arresto dei proprietari delle aziende. La polizia e la procura, strumenti fedeli della dittatura, hanno arrestato 13 imprenditori in poche ore, compresi due che erano andati al palazzo presidenziale per negoziare. Uno di loro, José Roberto Jaco, 64 anni, è morto in custodia cinque giorni dopo.
Osservavamo da lontano con stupore, ma anche con un pizzico di ingenuità. Pensavamo che la dittatura si stesse distraendo, che stesse guardando altrove. Vedevamo il paese perdere interesse per le interviste con gli affiliati delle gang e interessarsi al nuovo scandalo, in uno stato di perenne subbuglio.
Il 12 maggio circa 300 famiglie delle zone più povere del paese, a rischio sfratto, si sono radunate davanti al muro che circonda il lussuoso complesso residenziale privato dove vive Bukele con la sua famiglia, lo stesso che stava ampliando con più di 1,4 milioni di dollari di fondi pubblici spesi per la ristrutturazione. Con cartelli, bambini e anziani al seguito, chiedevano al leader salvadoregno di impedire gli sgomberi. Bukele ha inviato la polizia militare per disperdere la manifestazione e arrestare cinque capi comunitari, tra cui un pastore evangelico e un avvocato ambientalista. Le immagini di bambini e donne anziane che piangevano e supplicavano i militari di liberare i loro leader hanno di nuovo inondato i social media.
Dalla pubblicazione delle interviste con gli affiliati delle gang, al caos nel trasporto pubblico, fino alla repressione militare di decine di famiglie povere, per Bukele era stato un mese disastroso. Il suo dominio sui social media era stato scosso e i suoi sostenitori non guardavano più dove lui voleva. Il giorno dopo Bukele ha dettato la linea dal suo account X. Ha detto, senza fornire prove, che “delle persone umili” erano state “manipolate da gruppi autoproclamati di sinistra e da ong globaliste, il cui unico obiettivo è attaccare il governo”. Ha annunciato che avrebbe inviato all’assemblea legislativa un disegno di legge sugli “agenti stranieri”, per imporre una tassa del 30 per cento su tutte le donazioni o pagamenti internazionali destinati a organizzazioni o individui che il governo avesse dichiarato, appunto, “agenti stranieri”. Con quei fondi, ha detto, avrebbe estinto il debito della cooperativa El Bosque, e così le ong avrebbero “finalmente adempiuto al loro presunto scopo di aiutare il popolo”. Una settimana dopo, l’assemblea ha approvato la legge.
Noi, da fuori, non capivamo più nulla. Non sapevamo come interpretare quel vortice di repressione senza precedenti. Non solo non sapevamo se fossimo perseguitati per aver pubblicato le interviste con i leader delle gang, ma ormai era probabile che saremmo stati considerati anche “agenti stranieri”, rischiando multe tra i centomila e i 250mila dollari, somme che nessun giornalista del Faro possiede. È stata la prima volta, da quando eravamo espatriati, che uno dei nostri colleghi l’ha detto forte e chiaro: “Non dobbiamo tornare in Salvador”.
Il 18 maggio, poco dopo la mezzanotte, le chat di gruppo del giornale hanno cominciato a vibrare con insistenza: “Hanno arrestato Ruth López”. Una delle reazioni in chat è stata piuttosto ingenua: “Merda, non può essere”.
Pochi minuti prima, con inganni e bugie, alcuni poliziotti avevano costretto l’avvocata anticorruzione Ruth López a uscire di casa. Una volta fuori, le hanno detto che era in arresto e l’hanno obbligata a togliersi il pigiama e a cambiarsi in strada. López ha registrato l’audio di quello che succedeva sul suo telefono. “Muoviti, mettiti i pantaloni”, ha ordinato uno degli agenti. “Abbiate un po’ di decenza”, ha risposto López. La frase è diventata subito uno slogan per chi si oppone alla dittatura.
Alcuni sono andati in Guatemala. Suppongo che l’abbiano scelto per essere quanto più vicini al nostro paese, a tre ore di auto dal confine
López, che insieme alla sua organizzazione Cristosal aveva denunciato decine di casi di corruzione nel governo Bukele, resta in carcere con un’accusa di corruzione risalente a quando era consulente del tribunale supremo elettorale, la massima autorità del paese in materia di elezioni. Il suo processo è rimasto segreto, come le presunte prove in mano alla procura.
L’arresto di López è stato interpretato da noi e da decine di colleghi come un ultimatum del regime. Bukele, dopo un mese disastroso per la sua immagine, non era disposto a tollerare ulteriori affronti. López era una delle voci più riconosciute al livello internazionale nel denunciare il suo regime. Nel 2024, la Bbc l’ha inserita tra le cento donne più influenti al mondo.
Nella visione di Bukele non ci sono attivisti, giornalisti, cooperative o ambientalisti. Ci sono solo nemici, cioè chiunque non la pensi come lui.
Diversi colleghi di altre testate hanno cominciato a chiedersi se lasciare il paese. “Ho pubblicato un sacco di articoli sulla corruzione di questo governo. Pensi che dovrei andarmene?”, ha scritto in chat uno di loro da San Salvador.
A quel punto, alcuni colleghi del giornale avevano deciso di non tornare. Altri restavano determinati a rientrare. Intanto, preparavamo il nuovo numero mensile del Faro. Il titolo era: “En el país de Bukele hay presos políticos”, nel paese di Bukele ci sono prigionieri politici. Erano passati appena venti giorni dalla nostra partenza.
Gravità del momento
Non c’erano sviluppi, né nuove informazioni, c’erano però molte interviste con testate giornalistiche di varie parti del mondo in cui parlavamo delle rivelazioni che avevamo pubblicato. C’erano incontri con organizzazioni internazionali che ci ascoltavano preoccupate, ambasciate in diversi paesi che ci accoglievano e ci chiedevano cosa potessero fare. Rispondevamo che davvero non lo sapevamo, e che qualsiasi informazione su un’eventuale cattura al nostro rientro sarebbe stata utile. Nessuno ci diceva di tornare o che le cose si sarebbero sistemate.
Il 1 giugno, per commemorare un anno dalla sua rielezione incostituzionale, Bukele è apparso in tv dal teatro nazionale, circondato dai suoi fedeli deputati, magistrati e procuratori, oltre a numerosi soldati. In un discorso di ottanta minuti ha detto che non gli importa di essere definito dittatore e che questa sedicente stampa indipendente è composta da “attivisti politici che fanno soldi”.
Perché continuavamo a credere che saremmo tornati? Non è del tutto chiaro. Forse è ciò che resta quando tutto è incerto: un po’ di eccitazione nel rivedere i colleghi, una buona dose di sarcasmo sulle nostre circostanze. “Devo per forza rientrare con l’aereo su cui torna anche lui?”, scherzava qualcuno, e noi ridevamo. Ma nulla poteva mascherare la gravità del momento: la paura per le nostre famiglie, la prospettiva di una vita in prigione senza un processo equo e l’ombra opprimente della cattura di Ruth López. Per due giorni la sua famiglia non aveva saputo dove si trovasse.
Eppure, la decisione era stata presa: sette giornalisti del Faro sarebbero partiti alle 15.05 di sabato 7 giugno, sul volo Avianca 638 per il Salvador, dove sarebbero atterrati alle 16.35.
Nel pomeriggio del 6 giugno abbiamo concluso il Forum di giornalismo centroamericano in Costa Rica. L’ultima discussione era intitolata “Sotto attacco: come sopravvive il giornalismo centroamericano?”. A un certo punto un diplomatico ci ha chiesto di parlare in privato.
“Ho informazioni da due fonti indipendenti secondo cui domani sarete catturati all’aeroporto di San Salvador,” ci ha detto. “A partire da stasera, vi aspetta un dispiegamento di polizia. Non viaggiate”.
La metafora di una secchiata d’acqua fredda non rende l’idea. Come ha detto uno dei giornalisti, era come se improvvisamente ti spuntasse una gobba e il corpo diventasse più pesante. La stanchezza, ignorata dall’eccitazione del ritorno, è riemersa di colpo. Fino ad allora avevamo rinviato un passo che non riuscivamo a toglierci dalla mente: tornare. Ora lo cancellavamo definitivamente. Avevamo fatto le valigie, ci erano stati assegnati i posti, avevamo controllato quaranta volte che i passaporti fossero negli zaini. Nelle nostre teste eravamo già su quell’aereo.
Alle 20.45 del 6 giugno le uniche fonti che ci hanno risposto in Salvador hanno detto che non potevano scoprire nulla in così poco tempo e che l’aeroporto, controllato dall’amico d’infanzia di Nayib Bukele, Federico Anliker, era un bunker dal punto di vista delle informazioni. Se era stato pianificato qualcosa, ci hanno detto, non avevano modo di saperlo.
◆ Nayib Bukele, 44 anni, è stato eletto presidente del Salvador nel 2019 e riconfermato per un secondo mandato nel febbraio 2024. La sua popolarità è aumentata per il successo ottenuto nella lotta alla criminalità organizzata. Gli omicidi si sono drasticamente ridotti. Durante lo stato d’emergenza, decretato per la prima volta nel marzo 2022 e ancora in vigore, le autorità hanno arrestato più di 87mila persone con l’accusa di far parte di bande criminali. Sono state documentate torture nelle carceri e detenzioni arbitrarie. Bbc
Nessuno è salito sull’aereo. Non siamo riusciti ad avere informazioni, e il diplomatico è stato molto generoso nel rivelarci tutti i dettagli che aveva sulle sue fonti. L’informazione ci è sembrata credibile. Alla fine la fragile costruzione della “partenza preventiva” è esplosa in mille frammenti, ed è rimasta una sola parola per descrivere la nostra situazione. Per molti di noi, faceva ancora parte di una domanda ingenua: da oggi sono un esule?
Alcuni sono andati in Guatemala. Suppongo che l’abbiano scelto per essere quanto più vicini al nostro paese, a tre ore di auto dal confine. Continuava a pulsare un desiderio nascosto: tornare.
Con il passare dei giorni, sempre più colleghi del Faro e di altre testate sono arrivati nel paese centroamericano. Alcuni avevano ipotizzato che il governo avrebbe cercato di arrestare altri giornalisti, visto che non aveva fermato chi si aspettava con il nostro volo. Altri avevano notato pattuglie intorno alle loro case o visto la polizia bussare alle porte con domande inverosimili: “Abbiamo ricevuto una segnalazione di un’auto rubata. Chi vive qui?”. Alcuni ancora avevano ricevuto una chiamata diretta da una fonte fidata: “Esci subito da casa, stanotte vengono a prenderti”. Il 13 giugno l’Associazione dei giornalisti del Salvador (Apes) ha denunciato la partenza forzata di quaranta giornalisti dal paese.
Una notte, con una ventina di colleghi di cinque diversi mezzi d’informazione salvadoregni, ci siamo visti in una casa a Città del Guatemala. Ci siamo scambiati informazioni. “Non so cosa farò”, ha detto uno. “Credo che nessuno sappia cosa diavolo farà. Quando deciderete qualcosa, ditelo anche a noi, perché qui stiamo tutti camminando al buio”. Quasi due mesi dopo le interviste con i leader delle gang, diversi di noi ancora non si definivano esuli. Continuavamo a pensare al ritorno.
L’ultima volta
Un gruppo di giornalisti salvadoregni si è incontrato allo Shakespeare pub, a Città del Guatemala, per condividere le pene e annegarle in più di una birra. Avevamo accettato che nel futuro prossimo la nostra patria sarebbe stata proibita, distante, ostile. Uno stava pianificando di vendere la casa per trovarne un’altra in un’altra terra, da chiamare casa; un altro soffriva disperatamente per la mancanza del figlio, contava i minuti che lo separavano dall’abbracciarlo; un altro era stato abbandonato dalla compagna di molti anni quando aveva scoperto che era ricercato; un altro cercava di capire cosa fare della piccola impresa aperta in Salvador un anno prima, che stava dando i primi frutti. Alcuni si limitavano a bere.
Eravamo lì quando El Nuevo ha annunciato il suo arrivo. Preferisce che il suo nome non appaia in questa storia, per paura che la dittatura se la prenda con la sua compagna, giornalista. Lui è un giornalista veterano e un uomo meticoloso e ordinato. Quando, nel settembre del 2021, Bukele si era pubblicamente congratulato con se stesso per non aver usato gas lacrimogeni contro una marcia di protesta, El Nuevo aveva messo una valigia accanto alla porta. Eppure, il 7 giugno, quando qualcuno l’ha avvisato che delle pattuglie di polizia stazionavano intorno alla sua casa, ha dimenticato di prenderla. Da allora è in fuga, ospite di amici, con il telefono spento. È tornato di nascosto per recuperare la valigia e aggiungere qualche altra cosa. “Questa è l’ultima volta che spengo i fornelli”, si è detto. Ha preso un autobus e ha lasciato il Salvador. “Attraversando il río Paz mi sono chiesto quando lo attraverserò in direzione opposta”.
In Guatemala è venuto a sapere che un gruppo di colleghi stava bevendo allo Shakespeare pub e ha deciso di unirsi alla compagnia. È arrivato con lo sguardo che noi avevamo da settimane: quello di un pugile che si rialza dopo un ko. L’esilio capita immancabilmente ad altri, in altri paesi e in altri tempi, finché non capita a te. Ha fatto una battuta come saluto: “Ora mi accuseranno di associazione a delinquere”. Non ha riso. Ha dato un morso a un hamburger, sorseggiato una birra con aria meditabonda e ha detto ad alta voce: “È dura perché sei convinto che la tua vita e la tua ragione di vivere siano di servire là”.
Là, ha detto. Non qui.
Prima di lasciare il Salvador ha salutato la figlia. L’emozione gli ha riempito gli occhi di lacrime mentre ricordava le sue parole d’addio: “Ho la sensazione che, come nei videogiochi, per te sia finita una vita. Spero che nella prossima vada tutto liscio”. Quella notte il futuro appariva indecifrabile a tutti noi. ◆ svb
Óscar Martínez è un giornalista salvadoregno nato nel 1983. Dirige il sito indipendente El Faro, considerato uno dei migliori organi d’informazione del Centroamerica. In Italia ha pubblicato La bestia (Fazi 2014). Carlos Martínez è un giornalista salvadoregno. Per El Faro scrive di corruzione e criminalità.
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Questo articolo è uscito sul numero 1635 di Internazionale, a pagina 52. Compra questo numero | Abbonati