A una settimana dalla vittoria elettorale che dovrebbe riportare un po’ di ordine in Corea del Sud dopo sei mesi di crisi senza precedenti, il presidente progressista Lee Jae-myung lancia un primo piccolo segnale di distensione diretto a Pyongyang. Nel solco della tradizione dei leader democratici, che hanno sempre avuto un atteggiamento collaborativo nei rapporti con la Corea del Nord, Lee ha fatto spegnere gli altoparlanti schierati lungo il 38° parallelo dagli anni sessanta per inondare con musica k-pop, notiziari e propaganda di vario genere la zona a nord del confine.

In realtà la guerra degli altoparlanti nei decenni è andata avanti a intermittenza, con i due paesi (anche Pyongyang ha installato i suoi lungo la zona demilitarizzata e trasmettono rumori e suoni molesti che hanno costretto gli abitanti dei villaggi della zona a mettere i doppi o tripli vetri alle finestre) che li accendono e li spengono a seconda del clima nella penisola. Negli ultimi anni, con il conservatore Yoon Suk-yeol alla presidenza a Seoul, il clima è stato pessimo. Yoon aveva fatto riaccendere gli altoparlanti l’anno scorso, dopo che Pyongyang aveva risposto al lancio di palloni all’elio carichi di volantini contro Kim Jong-un e il suo regime – un’iniziativa delle ong sudcoreane che si battono per i diritti dei nordcoreani – mandando oltre confine palloni pieni di spazzatura.

Giovedì, un giorno dopo lo spegnimento degli altoparlanti sudcoreani, anche il Nord ha zittito i suoi e nella zona demilitarizzata è tornato il silenzio. Durante la campagna elettorale Lee si è impegnato ad allentare la tensione nella penisola ripristinando i canali di comunicazione tra le due Coree, interrotti nel 2020 da Pyongyang. Ci vorrà più della buona volontà di Lee per riportare in carreggiata i rapporti tra i due paesi, deteriorati da una serie di sviluppi nefasti dopo il prevedibile fallimento dell’iniziativa negoziale di Donald Trump, che nel 2018 e nel 2019 incontrò Kim Jong-un. La seconda volta, a Hanoi, in Vietnam, il vertice finì prima del previsto il secondo giorno per evidente mancanza di un terreno negoziale (secondo gli Stati Uniti i nordcoreani avevano chiesto la fine di tutte le sanzioni, nella versione di Pyongyang chiedevano solo una cancellazione parziale).

La fine rovinosa di quella fase che, nonostante le dubbie premesse dovute all’avventurismo di Trump, avevano acceso un minimo di speranza in un possibile progresso nella penisola, costò cara a Seoul. L’allora presidente Moon Jae-in, che da giovane aveva contribuito in prima persona allo sviluppo della sunshine policy, la politica distensiva dei leader progressisti sudcoreani nei confronti di Pyongyang, ci aveva puntato tutto. Invece il castello di carte crollò e non senza conseguenze. Poi venne la pandemia, e la Corea del Nord chiuse ermeticamente anche i confini normalmente porosi con la Cina per circa due anni.

Nel frattempo a Seoul il conservatore Yoon era succeduto a Moon, con un peggioramento ulteriore dei rapporti con Pyongyang, e la Corea del Nord si è avvicinata alla Russia, firmando con Mosca un accordo sulla difesa. Nel 2024, poi, c’è stata una svolta pericolosa da parte del regime di Kim Jong-un, che guida la Corea del Nord dal 2011: Seoul è stata dichiarata “nemico numero uno” della Repubblica Popolare di Corea, le agenzie governative per la promozione dei rapporti con il Sud sono state chiuse e l’arco dell’unificazione, monumento fatto costruire alle porte della capitare nordcoreana per celebrare l’obiettivo supremo del regime, è stato distrutto.

Per Lee Jae-myung, insomma, la strada è decisamente in salita. Ma secondo John Delury, esperto dei rapporti intercoreani, c’è un margine per essere ottimisti. “La logica che nel 2018 avevano spinto Kim al tavolo dei negoziati con Trump è ancora valida”, ha scritto la scorsa settimana su Foreign Affairs. “Quell’anno Kim aveva annunciato che, completati gli sforzi del suo paese per stabilire la deterrenza nucleare, ora la strategia del regime si sarebbe concentrata sullo sviluppo economico”, scrive Delury spiegando che Kim intende sollevare il paese dalla condizione di miseria e arretratezza croniche in cui si trova dalla fine della guerra fredda. E per farlo, più che rivolgersi alla Russia (che non sarebbe in grado di aiutarlo) e alla Cina (a cui Kim non intende dare un merito e un potere così grandi), Pyongyang potrà trovare degli alleati in Washington e Seoul.

Trump finora ha tagliato corto su una possibile nuova iniziativa diplomatica, pur dicendo che la sua amministrazione avrà rapporti con la Corea del Nord. Ma Lee potrebbe supplire alla volubilità di Trump con un atteggiamento pragmatico, che dovrebbe però passare per il superamento di tre ostacoli.

Le sanzioni (non solo togliere quelle imposte da Seoul ma convincere gli Stati Uniti e l’Onu a rinunciare a quello che finora è stato lo strumento su cui la comunità internazionale ha puntato di più per impedire alla Corea del Nord di proseguire lo sviluppo nucleare, e che però si è dimostrato fallimentare). Il dogma della rinuncia al nucleare da parte di Pyongyang (la pretesa, soprattutto statunitense, che qualsiasi negoziato dovesse avere come premessa la completa denuclearizzazione della Corea del Nord ha fatto cadere negli anni ogni trattativa). E l’obiettivo della riunificazione della penisola (Pyongyang ci ha già rinunciato, alla maggioranza dei sudcoreani non interessa, è solo un feticcio che impedisce una visione realistica del futuro: la convivenza pacifica tra i due stati).
Speriamo solo che qualcuno che conta a Seoul e a Washington ascolti i consigli di Delury.

Questo testo è tratto dalla newsletter In Asia.

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