Lee Jae-myung, leader del Partito democratico di Corea, ha vinto le elezioni presidenziali, voltando pagina dopo sei mesi di continui sconvolgimenti politici e colmando il vuoto di potere lasciato dalla difficile eredità dell’ex presidente Yoon Suk-yeol.
Lee ha ottenuto il 49,42 per cento dei voti, mentre Kim Moon-soo del Partito del potere popolare (conservatore) ha ottenuto il 41 per cento. Era la terza volta che Lee tentava di conquistare la presidenza: nel 2017 era arrivato terzo e nel 2022 aveva perso per poco contro Yoon.
Tuttavia il candidato democratico non ha conquistato la maggioranza assoluta, un’impresa riuscita solo all’ex presidente Park Geun-hye, che alle elezioni del 2012 conquistò il 51,55 per cento dei voti, unica candidata a ottenere questo risultato dopo l’emendamento alla costituzione del 1987, che ha introdotto l’elezione presidenziale diretta. Il 3 giugno l’affluenza alle urne è stata del 79,4 per cento, superiore a quella registrata alle presidenziali del 2022 e la quarta più alta dall’epoca del movimento per la democrazia del 1987.
Oltre al fatto di essere solo la seconda elezione presidenziale anticipata a causa della messa in stato di accusa di un presidente in carica (l’altra era stata nel 2016 dopo la destituzione di Park), questa tornata elettorale ha avuto un peso significativo perché è avvenuta in un momento di fortissima tensione per la democrazia sudcoreana.
Il paese è stato sconvolto il 3 dicembre dalla pasticciata imposizione della legge marziale fatta da Yoon, il primo tentativo di questo genere da quando la Corea del Sud è diventata una democrazia, nel 1987. Il 4 aprile la corte costituzionale ha destituito Yoon accusandolo di aver abusato della sua autorità e ha aperto così la strada alle elezioni del 3 giugno.
L’ordinato passaggio di potere avvenuto con queste elezioni anticipate rappresenta molto più del ripristino della stabilità e dell’ordine costituzionale dopo la crisi più grave che il paese ha vissuto da decenni a questa parte. È una testimonianza della resilienza e della maturità della democrazia sudcoreana, forgiata dalle turbolenze politiche.
Enormi responsabilità
La vittoria di Lee comporta però anche enormi responsabilità, perché il vento soffia contrario su più fronti. Sul piano interno pesano la polarizzazione politica e l’esaurimento dei tradizionali motori di crescita economica, aggravati da sfide strutturali come il declino demografico e il rapido invecchiamento della società, e dalla prospettiva incombente di un’economia a crescita zero.
Al di là dei suoi confini, la Corea del Sud deve affrontare lo spettro dell’incertezza economica globale scatenata dalle politiche sui dazi annunciate dal presidente statunitense Donald Trump, oltre alle crescenti sfide per la sicurezza, dalla persistente minaccia rappresentata dalla Corea del Nord al potenziale riposizionamento delle forze armate statunitensi in altre zone della regione indopacifica.
Con Lee alla presidenza, la Corea del Sud avrà un governo unito, in cui sia l’esecutivo sia la maggioranza dell’assemblea nazionale (171 seggi su 300) saranno allineati al Partito democratico. Una situazione molto diversa dall’amministrazione Yoon, segnata da un governo diviso in cui l’opposizione controllava il parlamento.
Lee deve anche affrontare cinque processi penali per presunti reati che vanno dalla violazione della legge elettorale alla corruzione, e questo probabilmente riaccenderà il dibattito sull’opportunità che ai presidenti sia garantita l’immunità per i presunti reati commessi prima di entrare in carica. Il Partito democratico ha chiesto la convocazione di una sessione straordinaria dell’assemblea nazionale per votare due proposte di legge, con un emendamento del codice penale che sospenderebbe i processi a carico di Lee. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1617 di Internazionale, a pagina 34. Compra questo numero | Abbonati