Negli ultimi giorni in Italia c’è stato un dibattito sui cosiddetti finti sold out dei concerti. Tutto è cominciato dalla newsletter a pagamento Vale tutto di Selvaggia Lucarelli, uscita il 5 giugno. Lucarelli rivelava l’esistenza di link riservati presenti sul sito TicketOne che offrivano biglietti a dieci euro (invece che al prezzo ufficiale, dai 50 ai 65 euro) per i concerti di Elodie, Luchè, Gazelle e altri artisti in stadi come il Maradona o San Siro. Secondo Lucarelli, i biglietti erano stati messi in vendita a prezzi stracciati per riempire all’ultimo momento migliaia di posti rimasti vuoti.

In risposta all’articolo della giornalista, il 17 giugno Federico Zampaglione, leader della band Tiromancino, ha scritto un messaggio su Facebook per denunciare a sua volta una pratica che secondo lui “sta distruggendo il meccanismo dei concerti e molte carriere”. Per spiegare il concetto Zampaglione ha sceneggiato un dialogo tra un giovane artista e il suo manager.

La situazione immaginata da Zampaglione è più o meno questa: un artista fa successo sui servizi di streaming e subito dopo il manager gli fa una proposta: “Ci vuole un tour nei palazzetti, anzi negli stadi e deve essere sold out! Così scateniamo l’ ufficio stampa e ti fanno santo subito”. Per far quadrare i conti, però, i biglietti dovranno andare sold out, come si dice in gergo, cioè dovranno essere venduti tutti. Il problema è che le prevendite non vanno come previsto, e quindi il manager propone due strade: o si annulla il concerto, oppure i biglietti ancora disponibili sono venduti a prezzi stracciati come un euro o dieci euro, oppure sono distribuiti tramite sponsor, concorsi sui social network e accordi commerciali di vario tipo. A coprire le perdite non sarà il manager, ma lo stesso artista, che dovrà cedere la maggior parte dei ricavi futuri, in pratica facendo concerti o interi tour senza essere pagato.

Evidentemente gli interventi di Zampaglione e Lucarelli hanno toccato un nervo scoperto, dato che nel mondo della musica quasi tutti hanno cominciato a discutere del tema. In seguito la giornalista è tornata sull’argomento, spiegando come funziona il meccanismo in modo ancora più dettagliato. Un cantante firma un contratto in esclusiva con un promoter, cioè l’organizzatore di concerti. Alla firma, l’artista incassa un anticipo corposo. Il contratto, scrive Lucarelli, prevede in genere che il 70 per cento degli incassi, al netto dei costi di produzione, vada all’artista, e il restante 30 per cento al promoter. L’artista, quindi, una volta incassato l’anticipo, deve vendere abbastanza biglietti da garantire il 30 per cento che spetta al promoter.

Nessuna di queste pratiche è illegale, ma la dinamica, evidentemente, non funziona. E il problema arriva da lontano. Gli artisti non vendono più dischi, lo sappiamo. Nell’ultimo decennio l’ascesa dello streaming ha risollevato in parte il destino delle case discografiche, ma i soldi guadagnati dai musicisti tramite piattaforme come Spotify sono pochi, a meno che non riescano a raggiungere cifre record che solo pochissimi sono in grado di totalizzare. Per questo i concerti sono diventati la loro principale fonte di guadagno. La conseguenza è che i compensi dei musicisti sono aumentati e che in tutto il mondo chi organizza eventi ha alzato i prezzi dei biglietti.

La pandemia, la guerra in Ucraina e le altre crisi internazionali hanno causato un aumento dei costi di produzione e per i viaggi. Molti tecnici, rimasti fermi a causa del lockdown, sono andati a lavorare nel cinema, le scenografie sono sempre più imponenti e costose, e la musica inciampa in una continua corsa al rialzo, alimentata anche dal fatto che molti promoter ormai fanno capo a multinazionali che non hanno problemi a fare grandi investimenti, anche a fondo perduto.

Prima puntavano su pochi artisti, coltivandoli e investendoci con criterio, oggi lo fanno contemporaneamente su tanti nomi, consapevoli che qualcuno di loro prima o poi avrà successo. Perdere ventimila e trentamila euro per un concerto andato male, se hai alle spalle una multinazionale, non è un problema. E quindi si cerca di far fare gli stadi bruciando le tappe. Lo stadio sold out è un simbolo, uno strumento di marketing perfetto. Se una cantante lo riempie, o dà l’impressione di riempirlo, può attirare nuove sponsorizzazioni e crearsi opportunità di guadagno anche al di fuori della musica (per molti cantanti, soprattutto nel mondo del pop e del rap, ormai stringere accordi con marchi famosi è il modo più facile e sicuro di arricchirsi). Per questo lo stadio vuoto non è un’opzione accettabile.

Nel suo articolo Lucarelli fa diversi esempi di artisti che sono rimasti intrappolati in queste dinamiche: dalla stessa Elodie, sotto contratto con Vivo concerti, ai Negramaro, sotto contratto con la Friends & partners (entrambe co-partecipate al 60 per cento dalla Eventim, azienda tedesca proprietaria anche di TicketOne). A prescindere dai singoli casi, però, è il sistema a essere imperfetto. E il fatto che diversi concerti siano cancellati o riprogrammati in spazi più piccoli (il caso di Tony Effe, il cui concerto alla Fiera Milano Live è stato spostato in un luogo molto più piccolo e accorpato all’esibizione di J Balvin, è stato clamoroso) è la spia delle prime crepe del sistema. Un sistema che, va detto, resta tutto sommato florido, come testimoniano i dati della Siae. Ma è giusto sottolinearne le storture, se ci sono. E forse è arrivato il momento che alcuni artisti comincino a dire qualche “no” al momento giusto, invece che farsi ingolosire dai grandi numeri.

Nel 2019 ho scritto un articolo sulla musica dal vivo in Italia, partendo dal fatto che quell’anno alcuni festival erano stati cancellati a causa delle scarse prevendite. Nell’articolo ipotizzavo l’esistenza di una bolla dei concerti, costruita su compensi troppo alti e sull’esigenza di fare troppe date. “Il risultato finale dei biglietti venduti quasi non conta, è importante che il posto sembri pieno, anche quando non lo è. Il cortocircuito sta arrivando, perché il marketing ha avuto la meglio sulla musica”, mi aveva detto il promoter Giorgio Riccitelli. Ecco, forse la crisi sotto gli occhi di tutti oggi nasce proprio in quel periodo, da una corsa al rialzo troppo frenetica e ambiziosa.

“L’abitudine di regalare i biglietti è abbastanza diffusa, anche in eventi più piccoli, ma se raggiunge queste dimensioni diventa una cosa diversa e più problematica. Venderli a dieci euro non fa gli interessi né dell’artista né del pubblico, né degli addetti ai lavori, ma solo dei promoter. In generale penso che passare dai piccoli locali agli stadi per qualsiasi artista sia un passo troppo lungo che porta a problemi economici perché i costi di produzione di uno stadio sono giganteschi. Se faccio un teatro da cinquecento posti e non riesco a riempirlo è un conto, se non riempio uno stadio con un palco enorme è un altro”, spiega Andrea Leonardi, direttore artistico attivo soprattutto in Umbria e curatore della rassegna Degustazioni musicali, oltre che tour manager dei Lankum e backliner dei Nu Genea.

“Spesso i cachet degli artisti sono troppo alti, è vero, ma detto questo le spese sono aumentate anche per loro, oltre che per il pubblico. Il costo del lavoro aumenta, i prezzi dei materiali e dell’energia crescono e i biglietti sono l’unico strumento per guadagnare. E mancano alternative, per esempio dei finanziamenti dello stato, come ci sono in altri ambiti culturali. All’estero il governo di solito aiuta gli organizzatori e anche i lavoratori. Mi è capitato di lavorare in eventi come il festival Ment a Lubiana in cui i tecnici di palco sono pagati dallo stato”, dice Leonardi.

Qual è la soluzione? “Ripartire dal basso e collaborare. Conosco festival piccoli che funzionano molto bene, come l’Holydays, che si svolge in Umbria d’estate e da dieci anni cresce a piccoli passi ma in modo costante, proponendo un cartellone interessante a prezzi popolari”, dice Leonardi. “Quelli sono esempi da seguire e hanno tanto da insegnare anche agli organizzatori degli eventi più grandi. E poi gli artisti vanno tutelati. Se credi in una persona, devi andare fino in fondo e sostenerla anche quando ci sono delle difficoltà, altrimenti è troppo facile fare il manager. E poi è importante accontentarsi di quello che si fa. Riempire un teatro da mille posti, alla fine, non è affatto male, ve lo assicuro”.

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