Un venditore ambulante di mascherine, Boniface Mwangi Kariuki, 22 anni, è diventato l’ultima vittima della brutalità della polizia keniana. Il 17 giugno si trovava sulle strade della capitale Nairobi mentre erano in corso delle manifestazioni per chiedere giustizia per la morte di un insegnante e blogger di 31 anni, Albert Ojwang, ucciso l’8 giugno mentre si trovava in custodia della polizia. Kariuki era ai margini delle proteste quando un agente armato di fucile gli si è avvicinato e gli ha sparato alla testa da distanza ravvicinata. Alla scena hanno assistito anche i giornalisti ed è stata ripresa in video. Il giovane è stato ricoverato in ospedale ed è ancora vivo.

Nel frattempo i manifestanti venivano aggrediti da gruppi di persone assoldate negli insediamenti informali che, armate di fruste, bastoni, pietre e coltelli, hanno fatto il lavoro sporco per conto della polizia e vandalizzato alcune attività commerciali. Secondo la stampa keniana, il sabotaggio delle proteste era stato pianificato in anticipo, con la connivenza di noti politici, per fermare sul nascere le contestazioni scoppiate dopo la morte di Ojwang. Alla fine della giornata del 17 giugno il bilancio era di almeno sedici manifestanti feriti ricoverati in ospedale.

Un caso sconvolgente

Il giorno successivo, il 18 giugno, è stato il primo anniversario dell’inizio delle proteste contro il presidente William Ruto organizzate dai giovani della generazione Z (i nati tra il 1995 e il 2010) per contestare una legge di bilancio considerata iniqua. La contestazione del 2024 era stata molto ampia, aveva coinvolto varie città, aveva costretto il governo a ritirare la norma criticata, ma aveva anche scatenato una repressione violenta delle forze dell’ordine: il bilancio di varie settimane di proteste era stato di sessanta morti e più di ottanta persone sequestrate illegalmente dagli agenti. Quell’energia non si è ancora esaurita, sostiene Charles Onyango-Obbo su The Nation, e le voci dei giovani sono ancora forti. Ma anche la polizia è in stato di allerta, e non esita più a nascondere il suo volto più brutale. Anzi, come scrive l’opinionista keniano Patrick Gathara, ormai agisce preventivamente per terrorizzare tutti coloro che pensano di tornare in piazza per denunciare la corruzione e l’incapacità del governo, e i metodi violenti delle forze dell’ordine.

Il caso di Ojwang è stato particolarmente sconvolgente per l’opinione pubblica keniana. L’insegnante era stato arrestato il 7 giugno vicino a Homa Bay, nel Kenya occidentale, con l’accusa di aver insultato online i vertici della polizia e in particolare il vicecapo Eliud Lagat. In realtà, scrive la Bbc, faceva parte di un gruppo di blogger che discutevano online di politica. Ojwang è stato trasferito a Nairobi, a 400 chilometri di distanza, e il giorno dopo è stato annunciato che era morto per le ferite che si era autoinflitto battendo violentemente la testa contro le pareti della cella. L’autopsia ha smentito questa versione, riscontrando che aveva subìto un violento pestaggio. La notizia ha fatto il giro dei social media, scatenando grande indignazione. Sei persone sono state arrestate in relazione all’omicidio e Lagat si è “fatto da parte” temporaneamente, in attesa della fine delle indagini. Ma i manifestanti che sono scesi in piazza il 17 giugno chiedono le sue dimissioni.

Prima di Ojwang, aveva fatto discutere anche il caso di Rose Njeri, una sviluppatrice di software e attivista digitale arrestata per crimini informatici. Njeri aveva creato un programma che permetteva ai cittadini di esprimere il proprio dissenso verso la legge finanziaria, che viene votata ogni anno a giugno. “L’ironia è crudele”, commenta Gathara, “perché il governo esorta i cittadini a partecipare al dibattito pubblico, ma poi li arresta proprio perché lo fanno. Questi arresti non sono episodi isolati. Sono gli ultimi focolai di una crescente e deliberata repressione del dissenso giovanile. E ci ricordano che l’élite al potere in Kenya, sempre più paranoica, è ancora perseguitata dallo spettro delle proteste della generazione Z, che sono state delle manifestazioni di massa, spontanee e decentralizzate”.

Il contesto regionale e internazionale non aiuta. In Tanzania un difensore dei diritti umani keniano, Boniface Mwangi, e la sua collega ugandese, Agather Atuhaire, sono stati detenuti per quattro giorni senza che nessuno fosse informato, sono stati torturati e poi abbandonati al confine con i loro paesi d’origine, solo perché volevano seguire il processo di un oppositore. Anche in occidente il rispetto dei diritti umani non sembra più una priorità, visto il trattamento riservato ai migranti e gli orrori della guerra a Gaza. “Per gran parte del periodo successivo alla guerra fredda, gli eccessi autoritari in Africa erano mitigati dal timore di suscitare la disapprovazione dell’occidente”, osserva Gathara. “La condanna non era solo imbarazzante, ma comportava rischi concreti, come la perdita degli aiuti, le sanzioni economiche e la perdita di legittimità popolare. Tuttavia, il declino democratico e il caos morale in occidente hanno radicalmente alterato l’equazione”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.

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