Nel 2024 le grandi banche hanno aumentato di più del 20 per cento i finanziamenti concessi a progetti legati alle fonti d’energia fossili, mettendo fine alla tendenza al ribasso registrata negli ultimi quattro anni. I dati arrivano da uno studio realizzato su 65 istituti di credito da un gruppo di 474 ong guidato dalla statunitense Rainforest action network. Analizzando i finanziamenti arrivati a più di 2.800 aziende, il rapporto stima che l’anno scorso i soldi per il carbone, il gas e il petrolio sono cresciuti di 162 miliardi di dollari rispetto al 2023, arrivando a 862 miliardi. In particolare, 429 miliardi sono andati direttamente ad aziende che hanno esteso la produzione di carburanti fossili e le infrastrutture connesse.

Questa svolta coincide con l’uscita degli Stati Uniti dagli accordi sul clima di Parigi e la conseguente decisione dell’amministrazione Trump di ridurre gli incentivi alle rinnovabili e tornare a puntare con decisione sulle fonti fossili. Non è un caso, infatti, che quattro delle cinque banche più attive siano statunitensi: la JPMorgan Chase, la Bank of America, la Citigroup e la Wells Fargo, che hanno concesso finanziamenti rispettivamente per 53,5 miliardi, 46 miliardi, 44,7 miliardi e 39,3 miliardi. L’altra è la giapponese Mizuho Financial, che ha prestato 40,3 miliardi di dollari. Al 39° e al 41° posto troviamo le italiane Unicredit e Intesa Sanpaolo, che nel 2024 hanno erogato rispettivamente 6,2 e cinque miliardi di dollari.

Eppure, sottolineano gli attivisti della Rainforest action network, “il 2024 è stato l’anno più caldo mai registrato ed è arrivato dopo che nel 2023 le concentrazioni atmosferiche di gas serra come l’anidride carbonica, il metano e l’ossido di diazoto avevano raggiunto i livelli più alti degli ultimi 800mila anni”. Tutto questo ha contribuito alla maggiore frequenza di eventi atmosferici estremi, come gli uragani Helene e Milton che si sono abbattuti nel sudest degli Stati Uniti, la siccità che sta danneggiando la biodiversità della Foresta amazzonica e una serie di inondazioni che ha ucciso più di 1.300 persone e distrutto milioni di abitazioni in Africa.

Le conseguenze si fanno sentire anche su chi non è stato colpito dai disastri naturali: in molte aree a rischio, per esempio, sono aumentati i costi delle polizze assicurative che coprono i danni alle abitazioni; inoltre, i minori raccolti dovuti alle condizioni meteorologiche estreme hanno provocato aumenti di prezzo eclatanti di materie prime e prodotti molto diffusi, come il cacao (ne ho parlato qui) e il caffè (ne ho parlato qui).

Dieci anni fa, aderendo agli accordi sul clima di Parigi, numerosi governi e di conseguenza aziende industriali e banche riconobbero che la crisi climatica era una realtà, non la teoria di alcuni complottisti, che vi giocava un ruolo decisivo l’uso delle fonti fossili e che quindi era un problema da affrontare al più presto. L’obiettivo degli accordi era contenere l’aumento della temperatura media globale sotto della soglia di 2 gradi oltre i livelli pre-industriali e di limitare tale incremento a 1,5 gradi, una condizione che secondo gli scienziati potrebbe ridurre sostanzialmente i rischi e gli effetti dei cambiamenti climatici.

Otto anni dopo, alla 28esima conferenza delle Nazioni Unite (Cop28) sul clima di Dubai, un passaggio della dichiarazione conclusiva invitava i governi a “contribuire agli sforzi globali” per “effettuare la transizione dai combustibili fossili, in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questo decennio cruciale, per raggiungere l’azzeramento delle emissioni nette entro il 2050 in accordo con la scienza”.

In un articolo uscito nei giorni della Cop28, Gabriele Crescente, editor di scienza e ambiente di Internazionale e curatore della newsletter Pianeta, scriveva che la conferenza “sarà ricordata come un successo spettacolare”, ma invitava a “non esagerare con l’entusiasmo”. I dati dello studio della Rainforest action network in effetti confermano l’invito alla prudenza. Nel 2024 il mondo ha superato la soglia critica degli 1,5 gradi per la prima volta, in parte anche a causa del rallentamento della transizione dalle fonti fossili. Vi hanno contribuito di sicuro le banche prese in esame dal rapporto della ong. “Sono aumentati gli istituti che si sono tirati indietro dalle politiche di contrasto della crisi climatica”. Tra il 2016, l’anno in cui sono entrati in vigore gli accordi di Parigi, e il 2024 le 65 banche analizzate dallo studio hanno concesso finanziamenti alle fonti fossili per 7.900 miliardi di dollari.

Lo studio si concentra su alcuni progetti sostenuti dagli istituti di credito. Per esempio il gasdotto Coastal GasLink, realizzato dal fondo d’investimento Kkr, dall’azienda energetica Tc Energy e dall’Albert Investment Management Corporation, che nel giugno 2024 hanno emesso obbligazioni per più di 5,2 miliardi di dollari grazie a istituti come la Royal Bank of Canada, la Bank of Montreal, la Cibc e la Bank of America. Partendo dai giacimenti di Dawson Creek, nel nordest del paese, l’infrastruttura attraversa le Montagne rocciose canadesi e arriva fino al distretto di Kitimat, nel nordovest, da dove salpano le navi che esportano il gas in Asia. I tubi passano per i territori della popolazione nativa Wet’suwet’en, che ha cominciato un’azione di resistenza per contrastare gli effetti negativi dell’opera sulle sue terre e per protestare contro il fatto che nessuno ha chiesto il suo consenso.

Altri due casi coinvolgono altrettante aziende statunitensi: la Kosmos Energy ha dato in pegno il greggio che estrarrà in futuro in cambio di un prestito da 1,4 miliardi di dollari con cui sfruttare i giacimenti nei fondali marini al largo della Mauritania e del Senegal; la Venture Global ha deciso di ampliare le sue attività estrattive nella Louisiana e la sua piattaforma per l’esportazione di gas naturale liquefatto emettendo tre miliardi di dollari di nuove azioni con l’aiuto della Goldman Sachs e della JPMorgan Chase.

La ragione principale per cui il mondo sembra aver rimosso qualunque impegno contro la crisi climatica risiede non solo nella decisione di Donald Trump di uscire dall’accordo sul clima di Parigi, ma soprattutto nell’inarrestabile aumento della domanda di energia elettrica. Come spiega il Financial Times, l’energia eolica e quella solare avanzano a ritmi record da anni, ma non abbastanza da soddisfare il fabbisogno di elettricità, che cresce di pari passo con la diffusione delle tecnologie digitali e in generale con l’elettrificazione di molte attività e prodotti (vedi nel settore dell’auto). Inoltre, se da un lato le rinnovabili sono perfino più economiche delle fonti fossili, dall’altro è vero che non garantiscono una fornitura continua nel tempo, la sicurezza energetica, dal momento che basta una giornata nuvolosa e poco ventosa per farne crollare la produzione.

È così che i governi, le aziende e le banche che le finanziano hanno tutt’altro che rinunciato al petrolio, al gas e al carbone. Quest’ultimo, la fonte fossile più inquinante, sta vivendo una straordinaria rinascita, perché è abbondante ed economico ed è molto richiesto – soprattutto ma non solo – in economie emergenti come la Cina, l’India e l’Indonesia, che hanno bisogno di alimentare le loro reti elettriche in forte espansione. L’India, per esempio, ancora ricava il 75 per cento della sua elettricità dal carbone, nonostante negli ultimi anni abbia investito miliardi di dollari nel solare e nell’eolico. Anzi, di recente la Coal India, la più grande produttrice mondiale di carbone, ha deciso di riaprire 32 miniere, chiuse negli anni passati perché considerate non redditizie, ed entro la fine del 2025 vuole lanciare altri cinque progetti di sviluppo. Attualmente in tutta l’India l’azienda gestisce 310 miniere.

Lo stesso discorso vale per il petrolio. Lo dimostra la lotta feroce nata per il controllo dei ricchissimi giacimenti della Guyana. Nel 2015 un consorzio di aziende guidato dalle statunitensi ExxonMobil e Hess e dalla cinese China National Offshore Oil Corporation (Cnooc) cominciò a fare scoperte significative al largo delle coste del piccolo paese sudamericano; negli anni successivi furono individuati più di trenta giacimenti, che secondo le stime dovrebbero contenere almeno undici miliardi di barili di greggio, quanto le riserve dell’Ecuador, dell’Argentina e della Colombia messe insieme; finora le aziende petrolifere hanno investito in Guyana 55 miliardi di dollari, ma in futuro lo sforzo dovrebbe moltiplicarsi. Intorno a questi giacimenti è in corso un duro scontro tra i colossi statunitensi Exxon e Chevron.

Tutto è cominciato il 26 febbraio 2024, quando la Chevron ha dichiarato che l’accordo da 53 miliardi di dollari con cui nell’ottobre del 2023 aveva annunciato l’acquisizione della Hess (una delle protagoniste della scoperta dei giacimenti della Guyana) sarebbe potuto saltare. Il motivo era l’opposizione di due concorrenti, la Exxon e la Cnooc, che sostengono di vantare un diritto di veto sull’operazione, in particolare sulla parte che riguarda i giacimenti della Guyana, in cui attualmente la Hess ha una quota del 30 per cento, la Exxon del 45 per cento e la Cnooc del 25 per cento. In questi mesi le aziende hanno trattato per arrivare a un accordo che soddisfi tutte le parti, ma alla fine hanno deciso di ricorrere all’arbitrato della Camera di commercio internazionale.

Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.

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