La surreale girandola di dazi promossa dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump si configura sempre più come un incredibile atto di autosabotaggio della principale potenza economica del mondo. Tra le vittime c’è lo stesso dollaro statunitense, che rischia seriamente di vedere ridimensionato il suo ruolo di valuta di riserva globale. Un fatto senza precedenti – annunciato molte volte nel corso dei decenni, ma poi puntualmente smentito dalla realtà – che avrebbe ripercussioni negative anche per il resto del mondo.
Tutto questo è la conseguenza della sfiducia crescente verso gli Stati Uniti: gli investitori e in generale l’opinione pubblica degli altri paesi si fidano sempre meno di un’amministrazione che, oltre ad avere una linea economica disastrosa, calpesta apertamente e impunemente lo stato di diritto e non perde occasione per umiliare gli alleati tradizionali e sostenere autocrati di vario tipo, dal russo Vladimir Putin al salvadoregno Nayib Bukele. Per questo molti operatori hanno cominciato a dirottare i loro soldi altrove.
Trump è letteralmente ossessionato dal deficit commerciale degli Stati Uniti con gli altri paesi, in particolare da quelli con la Cina e con l’Unione europea. È convinto che il suo paese sia sfruttato e derubato dal resto del mondo e che quindi debba riprendersi il mal tolto a forza di dazi e minacce varie, compresa quella di invadere i territori di stati sovrani. In tutto questo il presidente e i suoi consiglieri dimenticano, o preferiscono ignorare, che le entrate dei paesi in avanzo commerciale con gli Stati Uniti di fatto arrivano a Wall street.
Come spiega Tommaso Monacelli, professore ordinario di economia all’Università Bocconi di Milano, in un articolo uscito su Lavoce.info, “investitori e banche centrali usano il dollaro per difendere le proprie valute, pagare le importazioni, ripagare i debiti e gestire le fasi di crisi. Le aziende di tutte le nazionalità effettuano transazioni in dollari. Tutto ciò crea un’enorme necessità di detenere dollari, che vengono tipicamente investiti in titoli del tesoro americano, l’attività sicura e liquida per eccellenza”.
Secondo alcune stime, gli stranieri possiedono 19mila miliardi di dollari in azioni, settemila miliardi in titoli di stato statunitensi e cinquemila miliardi in obbligazioni aziendali. Il Fondo monetario internazionale calcola che attualmente gli Stati Uniti contribuiscono a un quarto dell’economia globale, ma allo stesso tempo più del 57 per cento delle riserve in valuta straniera mondiali è in dollari. Il 54 per cento di tutte le esportazioni è fatturato in dollari e per il biglietto verde passano il 60 per cento dei prestiti e dei depositi bancari internazionali e il 70 per cento delle emissioni internazionali di obbligazioni. Metà dei più di duemila miliardi di dollari in circolazione sono in mano a soggetti non statunitensi. Grazie alla forza della loro valuta, gli Stati Uniti hanno sempre goduto del cosiddetto “privilegio esorbitante”: possono indebitarsi a tassi bassissimi e tra l’altro imporre al resto del mondo sanzioni finanziarie pesantissime.
Questo sistema che sembrava indistruttibile comincia a scricchiolare. Un segnale inequivocabile è lo spread (la differenza di rendimento) tra i titoli del tesoro americano a dieci anni e quelli dello stato tedesco. Nei primi giorni di aprile, la Germania è diventata un posto più sicuro degli Stati Uniti per chi investe in titoli di stato e obbligazioni. Lo spread tra i titoli di stato statunitensi e quelli tedeschi è aumentato in una settimana del 50 per cento. Il motivo è la crescita dei rendimenti dei titoli del tesoro americano, scatenata dalla vendita furiosa di molti investitori.
L’aumento dello spread verso i titoli di stato tedeschi è un meccanismo che conoscono molto bene tutti i paesi molto indebitati, ne sappiamo qualcosa in Italia. Sembra incredibile, ma ora i mercati finanziari trattano gli Stati Uniti come un paese emergente: come ha scritto il Wall Street Journal, gli Stati Uniti sono “meno affidabili, più ostili e più isolati. Per gli investitori stranieri questo significa meno sicuri”. In genere i crolli azionari hanno sempre spinto gli investitori a rifugiarsi nelle oasi sicure, in particolare nei titoli di stato statunitensi In questi giorni, invece, le borse sono crollate, ma allo stesso tempo il dollaro si è indebolito e molti hanno cercato di liberarsi dei titoli di stato.
Potremmo essere davanti a un cambiamento epocale, in cui i capitali sono alla ricerca di porti più tranquilli e rassicuranti. Le conseguenze sono molteplici e riguardano tutto il mondo. L’aumento del rendimento dei titoli di stato è una brutta notizia non solo per le finanze delle Casa Bianca, da tempo pesantemente squilibrate, ma per l’intero sistema bancario statunitense: potrebbe dar vita a una crisi simile a quella della Silicon Valley Bank, ma agli steroidi. I bilanci degli istituti di credito statunitensi sono pieni di titoli di stato, che a causa del rialzo dei rendimenti si sono svalutati.
La Silicon Valley Bank era una banca di medie dimensioni che gestiva i fondi messi insieme dai finanziatori delle startup tecnologiche californiane. Due anni fa fu vittima di una classica corsa agli sportelli dei clienti, ansiosi di prelevare i loro risparmi. L’istituto aveva deciso di vendere i titoli in cui aveva investito parte dei depositi per soddisfare le richieste, ma l’operazione si era rivelata in perdita: in sostanza la banca incassava meno del valore nominale dei titoli, in gran parte obbligazioni a lungo termine. Questo squilibrio aveva messo in difficoltà le finanze dell’istituto, e la diffusione della notizia aveva fatto il resto, provocando il crollo, secondo per dimensioni solo a quello della grande crisi finanziaria del 2008.
A molti la situazione ricorda il caso di Liz Truss, la premier conservatrice britannica costretta a dimettersi nel 2022 dopo che il suo piano di tagli alle tasse, finanziato con i debiti, era stato sonoramente bocciato dai mercati e i rendimenti dei titoli di stato britannici erano schizzati verso l’alto. Ovviamente gli Stati Uniti hanno ben altra forza rispetto al Regno Unito, ma senza dubbio i recenti sconquassi dell’enorme mercato dei titoli di stato non fanno dormire sonni tranquilli neanche a Trump.
Anche perché la sua guerra commerciale rischia sempre di più di diventare una guerra finanziaria globale. Lo scrive il Financial Times citando l’analista della Deutsche Bank George Saravelos, secondo il quale “stiamo entrando in un territorio inesplorato nel sistema finanziario mondiale”. Con i dazi alla Cina ormai superiori al 100 per cento, pare esserci “poco spazio per un’ulteriore escalation sul fronte commerciale”.
Il 16 aprile Trump ha chiamato Pechino perché, dicono le agenzie, “sia contattato per risolvere lo scontro commerciale tra le due principali economie del pianeta”. Secondo la portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt, “ora tocca alla Cina. È Pechino che ha bisogno di fare un accordo con noi. Non siamo noi ad aver bisogno di concludere un accordo con loro”. Invece dell’intesa la prossima fase potrebbe essere uno scontro finanziario intorno ai titoli statunitensi in mano a Pechino. Nel breve termine potrebbe bastare l’intervento della Federal reserve (Fed, la banca centrale degli Stati Uniti) a calmare la situazione. Ma nel medio e lungo termine Saravelos vede un’unica soluzione: “Il ribaltamento delle politiche dell’amministrazione Trump”.
Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.
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