In un sistema commerciale e finanziario globale gli scambi avvengono attraverso una valuta principale che, per il paese che la emette, è fonte di potere e ricchezza enormi. Gli Stati Uniti devono semplicemente stampare dollari e scambiarli con prodotti alimentari, petrolio, smartphone o automobili. È come se tutte queste merci si materializzassero dal nulla quando nuovi dollari entrano in circolazione, perché tutti nel mondo hanno bisogno di dollari e sono felici di scambiarli con le merci prodotte con un duro lavoro. Provate a fare lo stesso trucchetto con il peso argentino. Ovviamente è impossibile. La gente vuole i dollari.

Non tutti sono contenti di questa situazione. Un documento pubblicato dal ministero degli esteri cinese nel 2023 osservava che “produrre una banconota da 100 dollari costa solo 17 centesimi, ma gli altri paesi devono sborsare 100 dollari di merci vere per averne una. Da più di cinquant’anni gli Stati Uniti godono di un privilegio esorbitante e della possibilità di fare debiti senza sacrifici grazie al dollaro, e usano la loro valuta per saccheggiare le risorse e le fabbriche di altri paesi”. Dal momento che oggi gran parte del denaro circola sotto forma di valuta elettronica, il ministero cinese in realtà sopravvaluta quanto costa ottenere 100 dollari di merci: si può fare gratis.

Negli ultimi secoli il ciclo delle grandi potenze è coinciso con quello delle valute di riserva. Se gli Stati Uniti smetteranno di essere la potenza principale, allora anche il dollaro non sarà più la valuta di riserva globale. Un capovolgimento così radicale può avvenire dopo una guerra mondiale o una crisi finanziaria catastrofica. Si potrebbe però pensare che una potenza dominante dovrebbe essere in grado di impedire esiti simili. È qui però che le cose si fanno più interessanti e anche più complicate. Essere i titolari della valuta di riserva globale è un privilegio e allo stesso tempo una maledizione. Se un paese può arricchirsi semplicemente stampando moneta, è probabile che perda interesse a produrre beni materiali. Potrebbe entrare in gioco un dinamica psicologica, ma anche se così non fosse, ci sarebbe sempre un meccanismo monetario. Se tutto il mondo vuole avere un patrimonio nella valuta di riserva globale, per risparmiare, investire o speculare, allora quella valuta sarà estremamente sopravvalutata. Non rifletterà più la domanda e l’offerta nei mercati e non permetterà più ai deficit commerciali di tornare in equilibrio.

Per il paese titolare della valuta di riserva globale sarà molto difficile vendere sui mercati globali le sue merci, il cui valore è gonfiato artificialmente, e di conseguenza il settore manifatturiero, l’agricoltura e perfino molti servizi si sposteranno altrove. Quel paese potrebbe finire per specializzarsi in servizi finanziari, nella gestione dei soldi, a spese praticamente di tutto il resto.

Quando Donald Trump si lamenta dei pesanti deficit commerciali che gli Stati Uniti sopportano da tempo, non capisce che non dipendono né dai dazi né da altri ostacoli imposti dagli altri paesi alle esportazioni statunitensi, ma dagli enormi flussi di denaro che si dirigono verso gli Stati Uniti e nelle tasche della classe che sta guadagnando migliaia di miliardi di dollari da questi flussi. Se vuole eliminare i deficit dovrebbe cercare di ridurre o limitare questi flussi, andando contro gli interessi di Wall street. Ma non è facile.

Un piano disperato

Il piano disperato di imporre dazi a tutto il mondo non è bastato a risolvere il dilemma: come evitare le conseguenze legate al ruolo di titolare della valuta di riserva globale senza ridimensionare questo ruolo? A quanto pare è impossibile. Appena è stato annunciato l’obiettivo di portare gli Stati Uniti a non avere più deficit commerciali con il resto del mondo, i mercati finanziari hanno cominciato a mandare segnali d’allarme. Il tracollo dei titoli di stato statunitensi si aggravava ogni volta che Trump apriva bocca.

La fiducia nel dollaro ha cominciato a vacillare e molti investitori stanno cercando alternative. Il 10 aprile, dopo l’annuncio di una pausa sui dazi, ci sono state alcune delle oscillazioni più violente sui mercati valutari degli ultimi dieci anni. Il dollaro si è svalutato con ampi margini rispetto all’euro e al franco svizzero e i rendimenti dei titoli di stato statunitensi sono saliti molto più rapidamente di quelli del governo tedesco. Questo non sarebbe dovuto succedere, perché nei momenti di crisi in genere tutti si spostano sui titoli di stato, che sono gli investimenti più sicuri. Cosa sta succedendo?

Sicuramente gli investitori temono che i dazi provocheranno una recessione e l’aumento dell’inflazione negli Stati Uniti, ma allo stesso tempo considerano la possibilità che l’economia statunitense sia sul punto di scollegarsi dal resto del mondo o comunque di diventare meno centrale negli scambi globali. In questo caso anche il dollaro sarebbe meno centrale. D’altronde in un mondo senza deficit gli altri paesi non potrebbero accumulare dollari grazie ai loro surplus commerciali. Anzi, se Trump va avanti per la sua strada, probabilmente gli statunitensi compreranno titoli di stato stranieri.

E cosa succede se Trump limita il flusso di capitali verso gli Stati Uniti o, peggio ancora, tassa i titoli in dollari? Fino a poco tempo fa questi rischi erano liquidati come impossibili, oggi non è più così. È in corso un vertiginoso processo di erosione della fiducia nel dollaro. Le valute di riserva crollano dall’interno, vittime delle loro contraddizioni e dei conflitti politici che quelle contraddizioni alimentano. Oggi gli Stati Uniti applicano estese sanzioni ai paesi nemici, ma anche ai paesi amici che non le rispettano. Ormai nessuno è sicuro che non ci saranno discriminazioni tra i titoli posseduti dagli statunitensi e i titoli in mano ai cittadini stranieri, una delle condizioni di base per una valuta globale.

Molti investitori pensano che i loro patrimoni potrebbero essere più al sicuro fuori dagli Stati Uniti. L’Europa e il Giappone sono delle buone alternative, soprattutto ora che hanno bisogno di indebitarsi per finanziare le politiche di riarmo. Trump dovrà affrontarne le conseguenze. I suoi elettori gli chiederanno di agire e per ora sognano una nuova epoca d’oro dell’industria. Il presidente forse è convinto di poterci riuscire senza sacrificare il dominio del dollaro, ma gli ultimi giorni hanno dimostrato che ogni azione ha una reazione. Tenterà altre vie per realizzare il suo programma, forse con rinnovata ferocia. Ma il re dollaro farà fatica a sopravvivere. ◆ gim

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1610 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati