Facendo un confronto con i vecchi modelli della Fiat 500, il presidente della casa automobilistica Stellantis John Elkann ha osservato di recente che la versione attuale “sembra aver trascorso qualche settimana in palestra” . Lo stesso si potrebbe dire per tutti o quasi i modelli presenti sul mercato. Secondo un report della rete di organizzazioni non governative Transport & Environment, per esempio, le auto stanno acquistando un centimetro in larghezza ogni due anni . E le auto che oggi consideriamo di media grandezza hanno dimensioni paragonabili a quelle di una berlina di alta gamma della metà degli anni ottanta come la Lancia Thema.
“Con la macchina è tutta un’altra cosa. Ti scambiano per una persona distinta”, diceva la prostituta interpretata da Giulietta Masina nel film di Federico Fellini Le notti di Cabiria. Era la fine degli anni cinquanta, gli anni del miracolo economico. Attorno all’auto, all’utilitaria specialmente, si andava costruendo il volto nuovo di un paese uscito a pezzi dalla guerra. Settant’anni dopo, l’utilitaria – tra gli oggetti più autenticamente popolari della cultura nazionale – è di fatto scomparsa dalla scena. Altre auto dominano oggi le strade. Sono decisamente più ingombranti. E raccontano tutta un’altra storia.
Il fenomeno è testimoniato dai dati sulle immatricolazioni messi a disposizione dall’Unione nazionale rappresentanti autoveicoli esteri (Unrae) e da quelli sulle dimensioni dei veicoli, dichiarati dai produttori o ricavati dalle tabelle del mensile Quattroruote. Incrociandoli, si nota che questo processo di ingigantimento ha riguardato le auto di ogni tipo non solo quelle di grossa cilindrata. In quasi tutte le categorie, i cinque modelli più venduti nell’aprile del 2025 sono più grandi dei primi cinque del 2014.
Alle stesse conclusioni si arriva anche analizzando la storia di alcune tra le auto che hanno avuto più successo negli ultimi decenni. La Volkswagen Golf, per esempio, in cinquant’anni si è allungata di quasi 60 centimetri. La Citroen C3 dal 2002 a oggi di centimetri ne ha guadagnati una ventina. Il caso più interessante però è quello della Fiat Panda, l’utilitaria per antonomasia in Italia. Quando uscì, nel 1980, non raggiungeva i tre metri e quaranta centimetri. Quella in vendita oggi tocca i tre metri e sessantacinque e ha una versione chiamata Pandina perché la Stellantis ha appena messo in commercio anche la Grande Panda, che sfiora i quattro metri e passa dalla categoria delle auto più piccole a quella superiore. Questa circostanza racconta con particolare evidenza anche un altro fenomeno che da tempo si è fortemente sviluppato insieme all’ingigantimento: i cosiddetti sport utility vehicle – i suv – si sono affermati come ideale di stile e forma delle auto perfino nella categoria delle utilitarie. Con conseguenze che è facile immaginare.
Il rapporto di Transport & Environment, per esempio, afferma che la larghezza media delle auto supera ormai i 180 centimetri, una misura fondamentale perché spesso è usata come riferimento per la larghezza del parcheggio su strada. Se non si entra in questa misura, come capita ormai a diversi modelli in commercio, si finisce per sottrarre pericolosamente spazio a chi si muove lungo la strada o sul marciapiede. Inoltre, le auto più grandi tendono a essere più alte, e le auto più alte sono più pericolose in caso di impatto con pedoni o ciclisti.
Roberto Scacchi, responsabile mobilità di Legambiente, spiega inoltre che “auto così ingombranti hanno un peso notevole in termini di occupazione dello spazio pubblico, di emissioni e di consumo energetico. Hanno bisogno di più energia per muovere le ruote, anche se elettriche. Da questo punto di vista, un suv elettrico è perfino un paradosso”.
C’è poi “la questione del consumo di materie prime che aumenta con la produzione di auto più grandi e complesse, senza che”, dice Scacchi, “ci sia un tentativo di recuperarne almeno una parte nel realizzare le nuove. E la necessità di terre rare genera scenari geopolitici terrificanti” (l’estrazione e il commercio di questi minerali necessari alla produzione di batterie sono controllati da pochissimi paesi, tra cui la Cina). Infine, mentre crescevano le dimensioni, sono cresciuti anche i prezzi. Questo ha spinto gli italiani verso l’usato e verso auto sempre più vecchie, quindi più inquinanti e pericolose.
“Nel 2019 il prezzo medio di un’auto era di diciannovemila euro, nel 2025 è arrivato a trentamila”, afferma Gian Luca Pellegrini, direttore del mensile Quattroruote. “Naturalmente non siamo diventati tutti così ricchi da poterci permettere queste cifre. Ma ci sono almeno trecentomila italiani che prima compravano auto piccole e ora non le trovano più sul mercato”.
Anche per questo, “l’attuale situazione è disastrosa”, come ha dichiarato Luca De Meo, fino a pochi giorni fa al vertice della Renault, in una recente intervista a Le Figaro concessa insieme a John Elkann. In un rapporto dell’autunno 2024 la Confindustria segnala un crollo della produzione in Italia del 34,7 per cento. Ma la dimensione della crisi la raccontano anche le notizie circolate in questi mesi su possibili licenziamenti di massa e chiusure di stabilimenti, come quelle annunciate dalla Volkswagen in Germania, per il momento rientrate.
Secondo il rapporto della Confindustria la transizione verde e la diffusione della tecnologia digitale hanno innescato un mutamento del settore. Questo significa che l’industria non si limita più alla “produzione dei soli veicoli ‘tradizionali’ a combustione interna” e alla “fornitura di servizi di trasporto”, ma va “verso una sempre maggiore integrazione con altri servizi”.
Siamo insomma nel bel mezzo di un cambiamento della natura industriale del settore. Una delle conseguenze è che le piccole auto da città diminuiscono, i suv “compatti” aumentano e i prezzi salgono.
“All’origine di tutti questi processi c’è la transizione ecologica”, sostiene Pellegrini. Secondo il direttore di Quattroruote le auto diventano sempre più care perché i motori elettrici sono più complessi e non se ne vendono ancora abbastanza per “consentire margini di manovra nella definizione dei prezzi”. E per investire risorse sull’elettrificazione, continua, si è dovuto tagliare altrove, “a partire dalle risorse destinate alle auto più piccole”. Sono in molti a pensarla così. L’Unione europea, ha spiegato Elkann parlando con Le Figaro, “si è concentrata esclusivamente sulla questione delle nuove auto e sull’unico obiettivo dei veicoli a zero emissioni”.
Ma la decarbonizzazione, cioè la progressiva riduzione delle emissioni di anidride carbonica, “dovrebbe avvenire tenendo conto del fatto che le auto in circolazione hanno un’età media di più di dodici anni”, dice Roberto Vavassori, presidente dell’organizzazione della Confindustria che rappresenta la filiera automobilistica (Anfia). Quindi il passaggio ai veicoli elettrici è utile “ma bisognerebbe ragionare su un piano dall’orizzonte più ampio”, continua, e che prenda in considerazione anche il mercato dell’usato.
Una soluzione potrebbe essere quella delle keicar, le miniauto che in Giappone sono molto popolari. “Possiamo anche provare”, dice Vavassori. “Aumentare la possibilità di scelta per i cittadini va bene. Ma non credo che sia solo questa la risposta alla crisi dell’auto europea in questo momento”.
“È una strada interessante”, osserva invece Roberto Scacchi, “il problema è che mentre se ne discute stanno arrivando i cinesi, e noi finora siamo riusciti solo a fare una nuova Panda che è più grande della vecchia e che costa quasi 25mila euro”. Il tempo disponibile per le decisioni insomma sta per scadere. Secondo Elkann, il mercato cinese nel 2025 supererà quelli di Europa e Stati Uniti messi insieme. Ma proprio un confronto con la Cina sembra mostrare che le responsabilità del ritardo europeo siano più dei produttori che della politica.
La transizione energetica in Europa ha creato delle difficoltà, ma il suo ruolo nella crisi in Italia è minimo, sostiene infatti Samuele Lodi, segretario nazionale della Fiom-Cgil e responsabile del settore mobilità. “Se la produzione cala”, spiega, “è soprattutto perché quello che si produce non soddisfa la richiesta dei clienti. E poi sono anni che la Stellantis disinveste. Dal 2015 in Italia c’è stato un taglio di almeno quindicimila dipendenti. Negli stabilimenti italiani sono tutti in cassa integrazione da anni. E tutto questo ha davvero poco a che fare con la transizione ecologica”.
De Meo ed Elkann sostengono che per rivitalizzare il mercato si dovrebbe tornare a riproporre utilitarie a un prezzo accessibile. Eppure, ricorda Lodi, per il momento le auto elettriche che la Stellantis produrrà negli stabilimenti italiani sono la Ds8 a Melfi, la Maserati Grecale a Cassino e l’Alfa Tonale a Pomigliano. Tutti modelli che costeranno almeno 60mila euro. “L’unico tentativo di produrre una elettrica a prezzi contenuti”, osserva il sindacalista, “è la Grande Panda, che comunque costa più di 24mila euro. E non è prodotta in Italia ma in Serbia”. A differenza del passato, continua, “ormai gli operai non possono più permettersi di comprare quello che producono. Tutte le conseguenze negative di questo processo si stanno scaricando sulle spalle dei lavoratori, e anche per questo oggi andare in fabbrica a parlare di transizione non è facile. C’è una propaganda che addossa tutte le responsabilità all’Unione europea, mentre il problema è che la transizione energetica dovrebbe essere un processo democratico, costruito insieme ai lavoratori”.
Infine, c’è anche chi ritiene che il mercato offra solo suv perché è quello che vogliono i consumatori. “In Italia”, spiega Vavassori, “negli ultimi decenni abbiamo assistito a un fenomeno che ora stanno conoscendo anche altri paesi, per esempio la Cina: all’aumentare della disponibilità di reddito si accompagna un mutamento negli stili di vita”. Per gli europei, prosegue, “l’auto è il più importante investimento dopo la casa, e non ci si accontenta più dell’utilitaria. Ci sono nuove esigenze, a partire dalla comodità. D’altra parte, anche la casa, potendolo fare, uno se la sceglie più grande e comoda”. Insomma, non è colpa solo del passaggio ai motori elettrici. E, aggiunge Vavassori, anche l’aumento dei prezzi non dipende solo dai costi di produzione più alti, “ma riflette le scelte dei consumatori orientate verso auto più grandi e confortevoli, e quindi più costose”.
Qualcosa del genere lo scriveva anche la Stampa, un giornale storicamente vicino alla famiglia Agnelli, quando nel 2018 annunciava l’uscita di scena della Fiat Punto, che esauriva la presenza del marchio italiano nella categoria delle utilitarie. “Gli automobilisti preferiscono sempre di più i suv”, anche nei segmenti di mercato più economici, scriveva il quotidiano di Torino, “e dunque non vale più la pena impiegare risorse su quelle utilitarie che fino a qualche anno fa erano la spina dorsale del mercato italiano”. E questo, al di là di ogni considerazione sulla transizione ecologica, forse spiega l’origine della situazione attuale dell’azienda che fu torinese.
Certamente ci racconta un cambiamento radicale della società italiana. La motorizzazione di massa è stata lo strumento con cui la politica e il capitalismo nazionale hanno ridefinito il volto del paese, facendo leva soprattutto sulla diffusione dell’utilitaria. È successo negli anni del fascismo con la Fiat Topolino, e poi durante il boom economico del dopoguerra con modelli come la Fiat 600 multipla, la Fiat 500, la Bianchina Autobianchi, e infine, quando si era ormai negli anni ottanta, la Fiat Panda.
Tutto questo ha favorito l’affermazione della società dei consumi che, come scrisse Pier Paolo Pasolini, insieme alle classi sociali stava cancellando anche ogni possibilità di sopravvivenza di un sistema di valori diverso da quello incarnato da quel nuovo ordine sociale. Non a caso nel dopoguerra si diffondono i supermercati, e nelle case degli italiani entra la televisione che, avvertiva Edmondo Berselli, avrà “un ruolo potentissimo nel propagare la trasformazione degli stili di vita”. Di lì a poco arriverà anche l’autostrada del Sole, realizzata in pochissimi anni. Si iniziò nel 1956 e nel 1964 era già pronta. Come tv e supermercati, serviva per accompagnare il boom economico.
In questo contesto l’auto svolge, nel bene e nel male, il compito di favorire un processo di sviluppo e di omologazione. Con l’utilitaria, scrisse il semiologo Omar Calabrese in un bel saggio contenuto nel volume curato da Mario Isnenghi I luoghi della memoria (Laterza 1996), “si poteva creare un nuovo tipo di consumatore, il consumatore interno italiano, da ricercarsi nel quadro di classi sociali precedentemente escluse dall’acquisto di mezzi di trasporto individuali che non fossero i motocicli”. In questo modo, “si creava un nuovo cliente di massa per espandere il mercato”, e “si costruiva interamente un nuovo settore di sviluppo dei consumi”. Con l’automobile, infatti, il consumismo si appropriava “dell’intera sfera del tempo libero dei lavoratori dipendenti, poiché portava la famiglia fuori di casa e concedeva alle famiglie, con la settimana corta, una mobilità prima impensata”.
Quanto importante fu il ruolo dell’auto ce lo raccontano anche i documenti esposti nella mostra Memoria e conflitti, curata da Maurizio Torchio e allestita nei locali del Centro storico Fiat, uno straordinario archivio aziendale di carta e lamiera. Tra i documenti ci sono una ricca collezione di volantini distribuiti in fabbrica, che per decenni i sorveglianti dell’azienda hanno raccolto con zelo quasi maniacale, o le fotografie che raccontano quanto profondamente la storia del paese sia passata da quegli stabilimenti, il Lingotto prima, Mirafiori poi. Basti pensare alla cosiddetta marcia dei quarantamila, la manifestazione degli impiegati della Fiat che nell’ottobre del 1980 a Torino mise fine a un lungo sciopero, contribuendo all’apertura di una fase politica nuova e alla progressiva crisi dei partiti come soggetti capaci di organizzare il consenso.
Rispetto ad allora, l’auto pare oggi aver perso centralità. E sembra che sia stata smarrita anche la capacità creativa, fatta di innovazione tecnologica e ricerca stilistica, che il settore ha sempre saputo esprimere. L’industria europea, come si è visto, fatica a stare al passo con quella cinese sull’elettrico. E con il dominio dei suv nel mercato le auto si somigliano un po’ tutte, molto più che in passato.
Succede anche perché, come spiega il direttore di Quattroruote Pellegrini, “oggi esistono regole uguali per tutti i produttori, che servono a garantire la sicurezza. Queste regole incidono su come le auto devono essere realizzate. E stanno accelerando una certa omologazione dello stile. Inoltre, un tempo le piattaforme, cioè le strutture su cui si montano i telai delle auto, erano diverse per ciascun produttore.
Oggi per ragioni economiche non è più così. Per esempio, la produzione della Stellantis per l’Europa avviene a partire da sole tre piattaforme multienergy (cioè adatte a motori con vari tipi di alimentazione) e tre full electric. È chiaro allora che poi le auto tendono a essere simili”. Tuttavia, “la forma è flagrante”, dice Lorenza Bravetta, direttrice del Mauto, il museo nazionale dell’automobile di Torino. “L’auto”, spiega, “traduce gli umori di ogni epoca, e nel settore succede quello che succede anche altrove: è un’epoca di standardizzazione e dismisura”. Quindi anche di auto tutte troppo uguali e tutte troppo grandi.
“Nella nostra società”, dice Bravetta, “le prospettive si sono ristrette, anche se le possibilità sono aumentate”. L’auto, aggiunge, “rappresenta anche una questione sociale e culturale. Non credo che abbia perso centralità né mancano le competenze che in passato hanno consentito lo sviluppo del paese. Ma oggi”, prosegue, “c’è un contesto che sembra frenare quelle competenze. L’auto è una vittima di questa situazione”. Servirebbe, allora, “uno sforzo generale per partecipare alla definizione di una società diversa. Al Mauto proviamo a parlare anche di questo, senza limitarci a essere custodi della memoria”. Lo testimoniano, tra l’altro, le iniziative che il museo mette in scena, in parallelo con l’esposizione permanente. “L’auto è un fenomeno popolare”, dice ancora Bravetta, “e le persone si avvicinano facilmente, consentendoci di condividere ricerca e conoscenza. Allargare la conoscenza rende le persone libere, e solo il confronto tra le idee consente il progresso”.
Va detto che da quasi tutte le auto esposte al Mauto, o al Centro storico Fiat, emerge un’idea della politica industriale dell’epoca, ma non solo. Quell’idea rappresenta anche un punto culturale e il racconto di una società che attorno alle auto si andava rimodellando. Non è un caso che l’utilitaria abbia caratterizzato così profondamente la cultura popolare, tanto da essere protagonista anche al cinema, in film come Fantozzi o I mostri o tanti altri ancora. Quelle auto hanno dato corpo al capitalismo italiano e, come scrisse Berselli, “a una variante locale del fordismo, nutrita ovviamente dall’idea che la crescita economica è tanto più solida se la classe operaia può comprarsi la macchina che produce alla catena di montaggio”. Oggi succede sempre meno. Le idee sembrano latitare, e gli operai, come si è visto, non possono più permettersi le auto che producono.
Oggi sono i suv i veri padroni delle strade. Hanno cambiato il paesaggio delle città, che devono adattarsi alle loro dimensioni. Dimensioni per le quali non sono state progettate. Chi compra un’auto simile sembra inseguire un orizzonte dal quale egli stesso per lo più viene espulso, e al quale resta aggrappato in virtù di un sacrificio economico che neppure il ceto medio pare essere più in grado di sostenere.
Ciò che stiamo osservando è molto diverso dall’assimilazione di contadini e proletari nella piccola e media borghesia avvenuta nel secolo scorso facendo leva anche sull’utilitaria. Queste nuove auto raccontano un ordine sociale e culturale nuovo, i cui contorni sono ancora in via di definizione. Archiviata l’utilitaria, insomma, una fase fondativa della nostra storia si è conclusa. Quella che si è aperta, almeno per il momento, si dibatte in una profonda crisi che, prima di essere industriale, sembra soprattutto una crisi d’identità.
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