“Vedi, o Fedro, la scrittura è in una strana condizione, simile veramente a quella della pittura. I prodotti cioè della pittura ci stanno davanti come se vivessero; ma se li interroghi, tengono un maestoso silenzio. Nello stesso modo si comportano le parole scritte: crederesti che potessero parlare quasi che avessero in mente qualcosa; ma se tu, volendo imparare, chiedi loro qualcosa di ciò che dicono esse ti manifestano una cosa sola e sempre la stessa”. Questo è un passo del Fedro, il dialogo scritto da Platone nel 370 avanti Cristo, secondo la traduzione in italiano tratta dalle Opere, volume primo (Laterza, 1967). Se ci fidiamo di Platone, è Socrate a pronunciare quelle parole.
I libri, in effetti, hanno questa caratteristica: ti danno l’illusione di essere autorevoli e ti danno anche sempre la stessa risposta. Chi fa ricerca, chi scrive saggi, chi fa giornalismo è abituato a verificare e confutare, e anche a far parlare fra loro i libri, citando le fonti che usa e provando a costruire nuovo sapere e nuove idee da quelle precedenti. Ma non è detto che questa sia una capacità di tutti. Fino a questo momento storico, poi, gli strumenti tecnologici a disposizione di questa attività riguardavano soprattutto la possibilità di accelerare la ricerca negli archivi.
Ma oggi abbiamo a disposizione le intelligenze artificiali generative che possono far parlare fra loro i libri, aiutarci a identificare idee comuni, a trovare percorsi ricorrenti, perfino a immaginare nuove idee.
Un esperimento ci può aiutare a capire come fare. Si chiama Talk to books (letteralmente, “parla con i libri”). È stato lanciato nel 2018 e purtroppo è stato chiuso qualche tempo fa. Funzionava così: invece di partire da una lista di parole chiave da abbinare a titoli o autori, si poteva scrivere una frase qualsiasi dentro una barra di ricerca – una domanda, un’affermazione, un dubbio – e il sistema restituiva risposte pertinenti, tratte da frasi intere contenute in più di centomila libri raccolti in Google Books.
Per far funzionare Talk to books, i ricercatori hanno addestrato un modello su miliardi di coppie di frasi che somigliavano a conversazioni.
In pratica, il sistema ha imparato cosa potrebbe essere una buona risposta a una certa frase. Così, quando si scriveva qualcosa, il sistema cercava in tutti i libri le frasi che rispondevano meglio, a livello di significato, alla richiesta. Lo faceva senza usare parole chiave né regole fisse: solo corrispondenze di senso.
Il sistema funzionava a livello di una singola frase, quindi a volte mancava il contesto e non era sempre chiaro perché una certa frase venisse mostrata. Inoltre, i libri più famosi non comparivano per forza in cima ai risultati, perché l’unico criterio era la vicinanza semantica. Ma era proprio questo il bello: lo strumento poteva aiutare a scoprire titoli e autori nuovi in modo del tutto inaspettato. I risultati, infine, non erano particolarmente accattivanti: semplicemente si vedevano una lista di frasi tratte dai libri con le rispettive copertine e il link al libro stesso. Per esempio, qualcuno aveva chiesto al modello: le ia possono avere coscienza? Ecco il risultato.
Talk to books usava i word vector, cioè vettori che rappresentano numericamente delle parole e le collocano in uno spazio immaginario che si chiama spazio latente. Questi vettori permettono agli algoritmi di individuare rapporti tra parole simili, osservando come vengono usate nella lingua reale. Frasi simili tra loro diventano punti vicini nello spazio latente: più sono vicini i punti che le rappresentano, più le frasi sono semanticamente affini.
Oggi Talk to books è un pezzo di storia delle intelligenze artificiali: non si possono più fare domande al sistema ma si possono ancora vedere alcuni esempi di ricerche passate.
Il principio con cui possiamo far parlare fra loro due libri o autori diversi o idee diverse, però, è lo stesso: oggi con Claude o Gemini o ChatGpt o una qualsiasi delle chat conversazionali basate sugli llm possiamo fare domande complesse, chiedere di trovare fonti, studi, di compararli e di costruire nuove idee sulla base di spunti precisi o anche solo di suggestioni.
Per esempio, ho fatto a Gemini una domanda molto complicata: “Credo che si possa fare, con i concetti, lo stesso lavoro che si è fatto prima con le parole e poi con le frasi in uno spazio latente. Cioè, credo che si possa insegnare a un’intelligenza artificiale a lavorare con la predizione non solo del prossimo token o della prossima parola o della prossima frase, ma anche con la predizione e il mescolamento di concetti complessi e astratti. Cosa ne pensi? Trova le fonti che trattano di questi argomenti e valuta la mia considerazione basandoti esclusivamente su ricerche già fatte. Quindi, espandi la mia idea e valutane la fattibilità e le conseguenze”. Poi ho attivato la funzione di deep research – cioè di ricerca approfondita – e ho lasciato che il modello lavorasse per me.
Ecco il risultato: un rapporto di 21 pagine, fonti incluse (ben 41) che, ovviamente, dovrei studiare, valutare, correggere, completare. Questa fase è fondamentale, perché il rapporto che consegnano le ia generative appare talmente accurato, completo e formalmente corretto da trarre in inganno. Non solo. Con una delle nuove funzioni rese disponibili al pubblico da Google Gemini, ho potuto anche creare una semplice web app che contiene il riassunto di questa ricerca, a partire dalla mia idea originale.
Così come a volte Talk to books proponeva frasi poco pertinenti, allo stesso modo la deep research di Gemini potrebbe dare risultati errati e potrebbe anche renderli gradevoli e semplici da analizzare, amplificando gli errori. Ma è comunque un’assistente preziosissimo per valutare idee in un modo che, fino a pochi anni fa, sarebbe stato semplicemente impensabile. E per far parlare fra loro libri, autori, culture, amplificando le capacità umane senza sostituirle.
Purtroppo, però, c’è chi continua a lanciare messaggi catastrofisti rispetto alla sostituzione e c’è chi vorrebbe aggiungere confini e barriere economiche ancor più grandi anche alle intelligenze artificiali.
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