Nel 2012, cinque anni dopo l’imposizione da parte di Israele di un blocco terrestre, aereo e marittimo sulla Striscia di Gaza, le Nazioni Unite pubblicarono un rapporto in cui avvertivano che entro il 2020 il territorio sarebbe diventato inabitabile. Le raccomandazioni erano chiare: bisognava costruire migliaia di case e centinaia di scuole e centri medici, raddoppiare la fornitura elettrica e investire nelle infrastrutture idriche e igienico-sanitarie. Questo sforzo colossale non c’è mai stato. Anzi, il blocco è proseguito e le condizioni di vita sono diventate ancora più intollerabili, generando una serie di crisi sanitarie. Poi è arrivato il covid-19.
All’inizio della pandemia l’isolamento di Gaza è stato percepito quasi come un vantaggio. I valichi di frontiera sono controllati da Israele e dall’Egitto, e Hamas, che governa la Striscia, ha imposto dei rigidi protocolli di quarantena. Mentre in Cisgiordania il virus sars-cov-2 è arrivato con i turisti all’inizio di marzo, a Gaza solo settimane dopo sono state individuate alcune persone positive, di rientro dall’Egitto. Ad agosto però c’è stato il primo focolaio locale. Al 14 ottobre c’erano più di quattromila casi confermati e 26 morti. Oggi i palestinesi della Striscia sono sottoposti a un “doppio lockdown”, ingabbiati da Israele ed Egitto, e limitati nei movimenti all’interno del territorio.
A differenza che in quasi tutti gli altri problemi sanitari, nel contenimento del covid-19 Gaza sta ottenendo risultati migliori rispetto alla Cisgiordania, che conta decine di migliaia di contagi e centinaia di morti. Tra i motivi ci sono i livelli multipli di isolamento, l’impossibilità di spostarsi in Israele per lavoro e il grande numero di giovani: l’età media nella Striscia è di 18 anni e meno del 7 per cento degli abitanti ha più di 55 anni.
Tuttavia è chiaro che una diffusione incontrollata del virus a Gaza sarebbe disastrosa. La densità abitativa è altissima e il distanziamento è difficile. La carenza di beni essenziali come acqua ed elettricità ostacolano gli sforzi per migliorare l’igiene. Quasi tutta l’acqua prodotta dall’unica falda acquifera non è potabile, e i liquami fognari spesso sono scaricati in mare, tornano a riva e inondano le strade. Inoltre manca il carburante per far funzionare i generatori negli ospedali durante i blackout.
Troppo tardi
La crisi sanitaria si è aggravata con i recenti sviluppi politici. A maggio il presidente palestinese Abu Mazen, in risposta alla minaccia di annessione israeliana, ha annunciato l’interruzione del coordinamento civile e di sicurezza con Israele. Questo ha comportato gravi ritardi nelle autorizzazioni per centinaia di palestinesi che hanno bisogno di uscire da Gaza per ricevere cure mediche avanzate.
La situazione rimanda alla questione della “vivibilità” di Gaza. Per anni, diversi rapporti hanno avvertito dell’“imminente” tracollo della Striscia. Ma le continue previsioni hanno occultato le crisi sanitarie già in atto, frenando la spinta ad agire finché è stato troppo tardi. Che si tratti di una guerra, delle conseguenze della crisi climatica o di un’altra pandemia, è certo che nei prossimi anni Gaza dovrà affrontare nuove minacce alla salute pubblica. È essenziale cambiare il modo in cui misuriamo il valore della sicurezza nazionale di una popolazione e quello della sicurezza umana di un’altra. Gaza di per sé è un luogo abitabile, come dimostrano i due milioni di persone che ci vivono, ma sta a noi renderla vivibile. ◆ fdl
Yara M. Asi è ricercatrice alla University of central Florida e segue un programma
di studio in Cisgiordania.
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Questo articolo è uscito sul numero 1381 di Internazionale, a pagina 38. Compra questo numero | Abbonati