All’aeroporto è venuto a prendermi un tizio. Teneva con cura sul petto un cartoncino con scritto il mio nome. Per un attimo mi sono sentito importante. Poi mi sono reso conto che erano le due di notte e c’erano pochissimi passeggeri a osservarmi con deferenza.

Siamo passati in auto per posti da far spavento, pieni di gente che evidentemente non andava a dormire. Ho sperato con tutte le mie forze che non si bucasse una gomma.

Il piccolo appartamento di Nairobi dove mi avevano sistemato era carino, proprio come nelle foto. Aveva però un solo problema: il letto era senza la zanzariera. Sono stato brutalmente spolpato fino al mattino. Mi sono chiesto se mi sarei beccato la malaria o la febbre dengue. Era una possibilità, certo. Ma dovevo essere punto da un insetto portatore dell’infezione. E grazie a Dio le zanzare del mio appartamento erano tutte in perfetta salute, perfino piuttosto educate.

Quando sono uscito a fare un giro nei dintorni mi sono reso conto che avevo prenotato l’appartamento nel quartiere sbagliato. Ero l’unico mzungu per strada. Tutti mi guardavano con stupore, come una figura esotica completamente fuori posto. Anche perché portavo al collo una macchina fotografica. E poi mi spostavo esclusivamente con i matatu. Ma prima di tutto chiariamo cosa vogliono dire queste due parole.

In tutta l’Africa orientale, soprattutto in Kenya, Tanzania e Uganda, la parola mzungu, di origine bantu, indica l’uomo bianco, lo straniero, il viaggiatore. Il termine è nato al tempo dei primi missionari ed esploratori europei che, a seconda dei casi, potevano essere appassionati di conversioni religiose, di caccia grossa oppure ossessionati dalla ricerca delle sorgenti del Nilo, come David Livingstone.

La cosa singolare è che la parola deriva dal verbo kuzunguka, che significa vagare o girare in tondo: esattamente quello che avevo programmato di fare in compagnia di Chris, vecchio complice di vagabondaggi vari, che sarebbe arrivato a Nairobi tre giorni dopo direttamente dalla California. Finalmente non sarei più stato l’unico mzungu del quartiere. L’idea era di fare un giro intorno al monte Kenya spostandoci solo con i matatu.

Gesù, Obama e Mandela

Se prima di lanciarsi in un’avventura del genere ci s’informa sui potenziali pericoli, alla fine si decide di non partire più. Si resta a casa tranquilli. Per questo avevamo consapevolmente evitato di informarci. Ci eravamo detti che essendo sopravvissuti ai mezzi di trasporto indiani, ora in Kenya non poteva succederci niente di particolarmente grave. Così siamo andati alla stazione degli autobus, abbiamo studiato l’orario scritto con il gesso su una lavagna e siamo partiti, restando in viaggio per quasi tre settimane.

I matatu sono i mezzi di trasporto più comuni in Kenya, nonostante i loro risaputi rischi. Sono minibus da quattordici posti, in cui miracolosamente riescono a entrare anche venti persone. Mi ricordavano un mezzo di trasporto alternativo comparso in Romania negli anni novanta: il cosiddetto “maxi-taxi”, conosciuto anche come “culettino al finestrino”, perché spesso, non trovando posto a sedere, la gente rimaneva piegata a 90 gradi con il sedere incollato al vetro.

Il matatu è arrivato in Kenya negli anni cinquanta e con il tempo è diventato un elemento riconoscibile della cultura locale. Tutti i minibus, come anche gli autobus, sono personalizzati e hanno la loro colonna sonora. Sono dipinti e decorati, talvolta in modo estremamente sofisticato, con immagini di ogni tipo – squadre della Premier league, rapper statunitensi e celebrità locali, per esempio i campioni di podismo – o con semplici slogan religiosi, come Jesus saves (Gesù salva). Una volta ne ho trovato uno con la Natività di Betlemme.

Oltre a Gesù Cristo, tra le personalità più rappresentate ci sono Barack Obama, Nelson Mandela, Martin Luther King, Bob Marley, Tupac e Snoop Dogg. Spesso le immagini sono accompagnate da frasi ispiratrici, come la celebre citazione di Nelson Mandela: “Sembra sempre impossibile, finché qualcuno non lo fa”. Quando però sono salito su un bus con scritto in grande Heaven is my destiny (Il paradiso è il mio destino), ho avuto un piccolo brivido. Cercavamo semplicemente una destinazione, non un destino. Gli autisti dei matatu sono sempre accompagnati da un cosiddetto hustler, un personaggio carismatico incaricato di attirare clienti, vendere biglietti e occuparsi della pulizia e della manutenzione dei veicoli, che spesso sono ridotti male e hanno problemi meccanici. Tra i pericoli più frequenti ci sono gli incidenti stradali, dovuti al sovraccarico di passeggeri, alla guida imprudente e alla velocità decisamente eccessiva su strade dissestate e piene di buche.

Gioiosamente colorati all’esterno, presentano un sacco di inconvenienti all’interno: niente aria condizionata, niente cinture di sicurezza. Il corridoio centrale, pieno di pezzi di compensato usati come sedili improvvisati, è una ressa tale da favorire le molestie sessuali, di cui le donne si lamentano spesso. I bagagli di solito sono impilati a piramide sopra il veicolo. Una volta un passeggero è riuscito a stipare due capre nel bagagliaio posteriore. Hanno belato disperate per tutto il tragitto.

A volte capita anche che l’autista e l’hustler si comportino da veri banditi. Magari sono in combutta con falsi poliziotti che si fanno consegnare denaro dai passeggeri. E non mancano neanche minacce di altri tipi: i matatu possono essere intercettati da bande di rapinatori o perfino dai terroristi somali del gruppo Al Shabaab. Quando una volta ci hanno fatto scendere, apparentemente senza motivo, nel mezzo di una zona desertica, abbellita da qualche rara acacia, la cosa ci è sembrata piuttosto sospetta. Dopo un’ora, però, ci hanno fatto salire su un altro matatu: il nostro si era rotto.

Come ho già detto, prima di partire avevamo evitato di leggere storie del genere. Volevamo scoprire tutto di persona. Un viaggio in condizioni di sicurezza, comfort e igiene, magari in gruppo e con una guida, per molti è la soluzione ideale. A noi, però, sembrava una prospettiva piuttosto noiosa. L’ignoto ha un fascino particolare. Così come l’assenza di controllo. Ti affidi alla strada e per un po’ lasci che prenda possesso della tua vita. Un vero nomade non ha piani fissi né una destinazione scolpita nella pietra. In pratica, la nostra avventura – che si è consumata saltando da un matatu all’altro e prendendoci pause di qualche giorno per esplorare i posti più interessanti – si può scomporre in tre parti: come ci si sentiva a stare stipati nei bus? Cosa si vedeva fuori dal finestrino? E com’era l’atmosfera nelle stazioni di benzina e negli autogrill?

Un matatu decorato con una pubblicità della serie televisiva statunitense 24. Nairobi, 4 dicembre 2018 (Andrew Renneisen, Getty)

Una luce speciale

Nei matatu si sta strettissimi, in un sorta di soffocante intimità, inattesa e provvisoria. Il bus diventa un semplice luogo temporaneo su cui la gente sale e scende, come gli angeli sulla Scala delle virtù dipinta sulla facciata del monastero di Sucevița, in Romania. Potevamo solo osservare, ascoltare, studiare i gesti e magari scambiare qualche parola con qualcuno. Solo che la presenza di due mzungu metteva a disagio gli altri passeggeri, che di solito non osavano rivolgerci la parola.

All’interno, i minibus offrono un piccolo spettacolo. Coprisedili fantasiosamente decorati, il tetto tappezzato con tela cerata colorata e il cruscotto pieno di adesivi, spesso attaccati anche sui finestrini dei passeggeri. Ne ricordo uno in particolare, scritto in un inglese piuttosto originale: Now its tym for me to shut up n let u hear me (Ora è il momento che io taccia, e che tu mi ascolti).

Poi ci sono i passeggeri, generalmente gente semplice, vestita in modo tradizionale oppure alla moda, donne musulmane sobrie e velate e ragazze con treccine spettacolari. Un miscuglio di operai, studenti, contadini, pendolari, venditrici, poveri o della classe media: una vasta gamma di persone diverse, loquaci, vivaci o riservate, che desiderano solo arrivare sane e salve da un punto A a un punto B. Si percepiva anche un netto contrasto tra il mondo statico e immobile all’interno dei bus e l’universo fluido che scorre fuori dal finestrino. La penombra interna fa a pugni con la luce esterna.

I matatu attraversano luoghi remoti e polverosi, villaggi addormentati sotto la luce vitrea tipica dell’equatore, infiniti campi di terra rossastra con file di piante di caffè, paesaggi fantastici con persone sdraiate all’ombra di baobab secolari che sorvegliavano cammelli scheletrici, mercati improvvisati ai bordi delle strade: tutto ci veniva somministrato in fretta e a piccole dosi.

Non riuscivo a scacciare il pensiero che prima o poi ci saremmo fermati per tornare indietro e analizzare tutto con calma. Ma era fuori discussione. La strada era sempre davanti a noi. Tutto quello che vedevamo poteva al massimo essere catturato in fotografie fugaci scattate dal finestrino impolverato o distillato in una sensazione indescrivibile e intima di profonda tenerezza per quel mondo semplice, sincero e colorato. Di tanto in tanto ci fermavamo un paio di giorni in luoghi a volte conosciuti altre volte ignoti, seguendo l’istinto e l’ispirazione. Poi ci tuffavamo di nuovo nel vortice che cominciava invariabilmente nel brulicante caos di una nuova stazione.

Arrivavamo sempre molto prima della partenza, per esplorare quella fiera colorata e confusa fatta di commercianti, mendicanti, imbroglioni, perdigiorno con lo stuzzicadenti in bocca, padri di famiglia con bambini vestiti bene e personaggi eccentrici piovuti dal cielo, che sembravano non appartenere a quel mondo di borse, valigie, sacchi di rafia e scatole legate con lo spago, in cui la gente trasportava i suoi beni più preziosi come fanno le chiocciole con il loro guscio.

Musica e gas di scarico

È un mondo di bettole alla buona, fast-food che vendono cibi sospetti, cesti di frutta portati sul capo da venditrici robuste, bottiglie di bibite colorate tenute in bacinelle piene di ghiaccio, e bancarelle dove si trova di tutto: dai cacciaviti ai lacci per le scarpe, dalle mollette ai lecca-lecca, dagli orologi agli ombrelloni. Tutto si fonde in una sinfonia di voci, musica, gas di scarico, polvere, banchetti di compensato ricoperti di gioielli economici e di qualsiasi cosa si possa immaginare. E poi ci sono uffici con uomini in camicia bianca, agenzie di viaggio e hotel senza stelle dai nomi altisonanti.

Lo spettacolo s’interrompeva ogni volta che entravamo nel mondo parallelo di un nuovo matatu diretto verso un’altra meta. Prendevamo cerimoniosamente posto e il veicolo si riempiva lentamente di nuovi volti. L’hustler che aveva trovato i clienti teneva con orgoglio le banconote tra le dita e non smetteva di parlare.

Quando nel bus non si riusciva a far entrare neanche uno spillo in più, l’autista si metteva solennemente al volante, gira la chiave e cominciava ad allontanarsi dal frastuono della stazione, accelerando verso un’altra destinazione. ◆ ap

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Questo articolo è uscito sul numero 1640 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati