Nunzia Caputo, 67 anni, racconta che ne aveva cinque quando la nonna la chiamò mentre giocava in strada a Bari perché l’aiutasse a preparare le orecchiette. “Uscivo a giocare ogni pomeriggio con la mia amica Giulia, poi mia nonna stabilì che non potevo più farlo e mi disse: ‘D’ora in poi imparerai a fare le orecchiette’. Io mi misi a piangere”. Altre lacrime arrivarono per i rimproveri ricevuti ai primi tentativi maldestri, ma in poco tempo capì come trasformare pezzi di pasta di semola in rotolini a forma di serpente per poi tagliare via dei piccoli pezzi dall’estremità, usando il pollice per creare la caratteristica forma concava. Da allora Caputo non si è mai fermata e oggi è la più nota tra le cosiddette signore della pasta, che producono e vendono le orecchiette davanti alla porta di casa in via Arco Basso, un vicolo nel cuore di Bari vecchia.
L’irresistibile miscela di signore arzille, pasta fatta in casa e bucato ad asciugare dai balconi è un’attrazione notevole per i turisti. Questa zona, un tempo poco frequentabile a causa degli scippi, ora ha acquisito una fama mondiale che ha portato ricchezza alle produttrici di orecchiette. Ma il successo nasconde spesso delle insidie. Ad agosto la guardia di finanza in borghese è arrivata nel vicolo e ha sequestrato grandi quantità di orecchiette e macchinari per la produzione della pasta, perché erano state sollevate accuse di produzione e vendita irregolare.
In alcuni casi è stata contestata la violazione degli standard di sicurezza alimentare e delle norme fiscali. Tre produttrici hanno ricevuto una multa di cinquemila euro per aver venduto pasta industriale dicendo che era artigianale.
Infuriate per l’intervento delle forze dell’ordine, le pastaie hanno interrotto l’attività e bloccato gli ingressi di via Arco Basso in segno di protesta. L’ispezione della guardia di finanza fa parte di un’indagine avviata dalla procura di Bari nel 2024 per verificare le accuse in merito alla pasta industriale spacciata per artigianale. I dubbi sull’autenticità delle orecchiette di Bari vecchia circolano da anni, ma sono diventati più insistenti dopo l’esplosione turistica successiva alla pandemia, dovuta soprattutto alle navi da crociera che attraccano in porto. I giornali locali hanno cominciato a indagare, mentre alcuni turisti, sospettando di essere stati raggirati, hanno pubblicato dei video sui social network. Si presume che alcune pastaie avrebbero acquistato pacchi di orecchiette industriali, poi vendute come fresche. Le autorità hanno detto che la prova più schiacciante sono state le pile di cartoni vuoti di pasta industriale trovati nei cassonetti vicino alla città vecchia. Caputo, che organizza corsi per fare le orecchiette e viaggia in tutto il mondo per promuovere la tradizione di questa pasta, non è tra le persone multate, ma racconta di essere rimasta “terrorizzata” dal blitz, compiuto come se si trattasse di armi o droga, invece che di orecchiette.
Prima non era così
Anche se in questa occasione le pastaie sono state solidali, tra loro c’è una forte rivalità. Quasi tutte preferiscono non parlare dell’indagine, ma una ha ammesso di aver venduto un prodotto industriale. “Sì, sono stata multata, ma cosa dovevo fare? La domanda era enorme e non riuscivo a tenere il passo”, ha detto. “I turisti mi scattano foto come se fossi una reliquia in un museo. Prima non era così”.
Pietro Petruzzelli, consigliere comunale, garantisce che l’amministrazione sostiene la tradizione, “ma non si può vendere pasta industriale presentandola come artigianale”.
Gaetano Campolo, amministratore delegato della piattaforma Home restaurant hotel, che mette in contatto gli appassionati di cucina con gli chef per organizzare cene in abitazioni private, dopo aver depositato la denuncia che ha fatto partire l’indagine ha criticato il consiglio comunale per aver cercato di trasformare in attrazione turistica un’attività illegale. “È un’operazione pericolosa che tradisce chi rispetta la legge”, sottolinea.
Caputo sminuisce il peso dell’indagine: “Mi sento perseguitata da tutto questo, ma non smetterò di fare il mio lavoro”. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1640 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati