Cosa sono diventati i Radiohead? In questi mesi chi segue da tempo la band di Thom Yorke se l’è chiesto varie volte. Negli anni novanta il gruppo di Oxford si era imposto sulla scena globale facendo dialogare il pop e la sperimentazione con una naturalezza sorprendente: quale altra band britannica sarebbe riuscita a portare in testa alle classifiche statunitensi un disco come Kid A, geniale manifesto delle contraddizioni di fine novecento a cavallo tra rock, elettronica e jazz, ispirato a No logo di Naomi Klein e pubblicato senza alcun singolo di lancio né un videoclip?
I Radiohead facevano dell’integrità artistica e politica uno dei loro tratti distintivi. Yorke e compagni si sono sempre schierati in modo netto su molte questioni, dalla globalizzazione alla crisi climatica, dalla questione tibetana alla Brexit. La scelta di pubblicare l’album In rainbows sul loro sito a offerta libera nel 2007, dando uno schiaffo all’industria discografica mondiale, è un altro episodio che li ha resi un caso quasi unico nella musica leggera occidentale.
Il gruppo che il 14 novembre si è presentato all’Unipol Arena di Bologna per la prima delle quattro tappe italiane del suo tour europeo, però, è cambiato molto. Dopo la pubblicazione di A moon shaped pool nel 2016 e il successivo tour, la band si è presa una lunga pausa e i cinque musicisti si sono dedicati a progetti paralleli.
In questi sette anni di silenzio è successo un po’ quello che era accaduto agli Oasis dopo lo scioglimento: i Radiohead sono diventati un legacy act, come si dice in gergo, cioè riscuotono successo più per quello che hanno fatto in passato che per quello che propongono nel presente. Il fatto che Let down, un brano di Ok computer che parla di alienazione e distacco emotivo, sia diventato molto popolare su TikTok tra la generazione Z lo conferma.
C’è un’altra cosa che ha cambiato il modo in cui sono percepiti: la questione di Gaza. La band ha suonato in Israele diverse volte nel corso della sua carriera, anche nel 2017, quando ha ignorato la richiesta di Roger Waters di annullare un concerto a Tel Aviv. Yorke, spesso criticato negli ultimi due anni per il suo silenzio sui massacri compiuti dall’esercito israeliano a Gaza, è stato anche contestato da uno spettatore durante un concerto da solista a Melbourne nell’ottobre del 2024 e in seguito, in particolare in una recente intervista concessa al Times di Londra, ha dichiarato che non tornerebbe mai a suonare in Israele.
Il polistrumentista Jonny Greenwood, sposato con l’artista israeliana Sharona Katan, è stato criticato dal movimento Bds (Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni) per aver registrato un disco con il musicista israeliano Dudu Tassa, che in passato ha tenuto un concerto per dare conforto ai soldati dell’esercito di Tel Aviv. Per questo motivo il Bds ha chiesto di boicottare i concerti della band.
Il gruppo di attivisti Artists for Palestine Italia inoltre ha invitato gli spettatori dei concerti italiani a “portare la Palestina” dentro l’Unipol Arena, magari sventolando una bandiera palestinese (anche se questi oggetti, per questioni di sicurezza, sono vietati ai concerti) e ha organizzato un presidio prima della seconda data bolognese, quella del 15 novembre.
“Molti sono rimasti delusi dall’atteggiamento della band, e hanno deciso di non andare a sentirla; molti di quelli che andranno nutrono disappunto”, hanno dichiarato i portavoce del gruppo di Bologna di Artists for Palestine. “Ci auguriamo che i Radiohead colgano questa occasione per mettersi in discussione e in ascolto, senza sentirsi vittime di una caccia alle streghe, come ha dichiarato recentemente Thom Yorke. Una dichiarazione dal nostro punto di vista immotivatamente vittimista. La band dovrebbe prendere sul serio la questione della complicità e dell’art washing e agire di conseguenza”.
Dentro la gabbia
Quando i Radiohead compaiono all’Unipol Arena alle 20.30 camminando nell’unico passaggio lasciato libero in mezzo al parterre circondati da alcune guardie del corpo, non è semplice scrollarsi di dosso queste domande e concentrarsi solo sulla musica, il motivo per cui teoricamente saremmo tutti qui.
Yorke e compagni prendono posizione sul palco, che si trova al centro del palazzetto ed è pensato per una fruizione a 360 gradi. All’inizio è una specie di gabbia, con la band visibile quasi solo attraverso i megaschermi colorati, che però si alzano quasi subito. I Radiohead attaccano con Planet telex, il brano di apertura del disco del 1995 The bends. Il suono è impastato, complice l’acustica non impeccabile del palazzetto, e si fa veramente fatica ad ascoltare bene.
Anche nelle successiva 2+2=5, pezzo orwelliano che riflette sulle conseguenze del pensiero totalitario, i suoni non sono impeccabili. Dalla successiva Sit down stand up, un brano raramente eseguito dal vivo, per fortuna i fonici correggono il tiro e il concerto comincia a ingranare sul serio. In Bloom, uno dei pezzi migliori della produzione più recente della band, i Radiohead assumono un passo felpato, con il basso di Colin Greenwood e la robusta sezione ritmica (al batterista Philip Selway in questo tour si è aggiunto il percussionista Chris Vatalaro) che sale progressivamente di livello.
I musicisti ruotano, cambiano strumenti. Sembra di assistere a una giornata in sala prove, con Yorke che a ogni pezzo si mette a un’estremità diversa del palco. Certo, gli anni si sentono: i Radiohead hanno meno furia di un tempo, la voce di Yorke è meno potente e a tratti gigioneggia troppo, coprendo evidentemente con il mestiere qualche mancanza, ma il loro andamento cadenzato e sempre più jazzato è un ottimo compromesso per far respirare la loro musica. Siamo in un palazzetto, ma a tratti sembra di essere dentro un club, si apprezzano finezze e sfumature che di solito in questi contesti non si notano.
L’esibizione si fa a mano a mano più dinamica, calda e partecipata. Il ritornello di Lucky apre la strada ai cori del pubblico dell’Unipol arena, The gloaming ricorda quanto sia piena di colori e di stratificazioni la loro musica. There there, con il crescendo finale di chitarra, e la malinconica No surprises, che Yorke canta con voce quasi roca, sono un trionfo. Tra un pezzo e l’altro pochissime parole, qualche “grazie”, un paio di “come andiamo?” e poco altro. In compenso, tanti sorrisi.
Arpeggi/Weird fishes va a segno creando un momento quasi estatico mentre il chitarrista Ed O’Brien canta insieme a Yorke. Il gruppo sembra in palla, quasi come se suonare di nuovo di fronte a un pubblico fosse una liberazione, un modo per ritrovare unità dopo un periodo difficile. O’Brien esce da una forte depressione, e si ha comunque l’impressione che tra lui e Jonny Greenwood sulla questione di Gaza ci sia stata qualche tensione.
Nella seconda parte del concerto arrivano alcuni pezzi da novanta: la paranoia elettronica di Idioteque, nella quale Yorke descrive delle persone che entrano in un bunker per sfuggire a un bombardamento, mi fa venire in mente che a Gaza nei mesi scorsi per la popolazione civile non c’erano nemmeno dei bunker dove rifugiarsi. Fake plastic trees commuove, mentre Paranoid android si conferma una canzone immortale nonostante la sua complessità.
La conclusione del concerto è affidata alle chitarre affilate di Just e a Karma police, che scatena il momento più instagrammabile del concerto, con il coro finale “For a minute there / I lost myself” che si prolunga per un paio di minuti. E poi arrivano i saluti finali, con i Radiohead che scendono le scalette che portano sotto il palco e poi di nuovo fuori, in mezzo alle persone, come facevano gli U2 ai tempi del PopMart tour.
È vero, è strano che i Radiohead si concedano un tour fondato sulla nostalgia come questo, dove non propongono nuovi brani e si limitano a rifare sé stessi. Ed è vero che la loro credibilità sul fronte politico e civile è meno solida di un tempo. Al tempo stesso, è difficile negare che l’esibizione a Bologna sia stata un mezzo trionfo, un modo per ripartire in modo convincente dopo anni di pausa, anche se non sappiamo verso quale direzione, visto che il gruppo ha ammesso di non avere piani definitivi per il futuro prossimo.
A metà degli anni settanta David Bowie, come racconta anche un recente libro di Massimo Palma, nei panni del suo alter ego Duca Bianco, si lasciò andare a una serie di dichiarazioni piuttosto allucinanti, dicendo di credere fortemente nel fascismo e che “Adolf Hitler era stato una delle prime rockstar”. In seguito Bowie rinnegò quelle frasi, dicendo che erano frutto del suo abuso di cocaina. Ma quello che diceva toglieva qualità e forza alla musica che faceva? Direi di no, in quegli anni Bowie scriveva canzoni meravigliose.
La domanda, comunque, resta: cosa sono diventati i Radiohead? Il concerto di Bologna ci ha dato risposte parziali, ma ha lanciato un messaggio: la musica di Thom Yorke e compagni ha una forza difficile da scalfire. Sopravvivrà alle loro contraddizioni e ai loro silenzi.
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